Scienze

Una conversazione con John H. Elliott su Filippo IV, Olivares e la Spagna

21 Novembre 2021

Nel 1621 il re più potente d’Europa, Filippo III, moriva. Quello stesso anno diventava re suo figlio, Filippo IV, el rey planeta. Sono trascorsi quattrocento anni da allora, ma la data merita ancora di essere ricordata, perché il regno di Filippo IV fu decisivo per la Spagna, per l’Italia, e per l’Europa intera.

J. H. Elliott

Del sovrano absburgico, del conte-duca di Olivares, di Velázquez e della Spagna (di ieri, ma anche di oggi) ha molto da dire John Huxtable Elliott, uno dei maggiori storici viventi. Alcune sue opere, ad esempio The Revolt of the Catalans (Cambridge University Press), La Spagna imperiale 1496 – 1716 (il Mulino) e il celeberrimo Il miraggio dell’Impero. Olivares e la Spagna: dall’apogeo al declino (Salerno Editrice), sono pietre miliari della storiografia sulla Spagna moderna (e sul mondo atlantico).

Nato nel Berkshire nel 1930, regius professor emeritus all’Università di Oxford, fatto Sir da Elisabetta II nel 1994, nel corso della sua lunga e straordinaria carriera Elliott ha lavorato con storici del calibro di Jaime Vicens Vives, e tra i suoi allievi e assistenti si possono citare Geoffrey Parker, autore di testi fondamentali, e il defunto José Francisco de La Peña. Memorabili i suoi confronti con Fernand Braudel. Nel corso della lunga conversazione telefonica Elliott ha parlato di Filippo IV e di Olivares, della Spagna di quel periodo – investita dalla guerra con la Francia di Richelieu, dalla rivolta del Portogallo e dalla sollevazione della Catalogna -, ma anche della Catalogna di oggi, dell’autodisciplina che ogni storico dovrebbe imporsi, del problema capitale dell’individuo nella storia.

Nel 1621, professore, Filippo III muore. Gli succede Filippo IV. La Tregua dei dodici anni si conclude, la Prima rivolta ugonotta raggiunge il suo culmine… insomma, il 1621 sembra essere un anno molto importante per l’Europa, concorda?

Sì, penso sia un anno decisivo da ogni punto di vista. Si verifica una grande trasformazione in Spagna con l’apparizione di un nuovo favorito, che al momento adeguato sarebbe divenuto primo ministro, e avrebbe governato il paese per oltre vent’anni: il conte-duca di Olivares. Al contempo, come ha detto lei Catania, spira la Tregua dei dodici anni, che significa il ritorno alla Guerra [tra la Spagna e le Province Unite] dopo alcuni anni di pace, relativa ma non totale, durante il regime del duca di Lerma come primo ministro di Filippo III.

Filippo III ritratto da Diego Velázquez, Museo del Prado, Madrid

Qual è la sua opinione generale su Filippo IV, el rey planeta?

Beh, la mia sensazione è che sia stato uno dei più intelligenti monarchi del ramo spagnolo degli Absburgo. Non era una forte personalità per certi versi, sapeva essere molto ostinato, ma aveva un senso estetico estremamente acuto, era un grande collezionista, si interessava di musica, leggeva, cercò anche di tradurre un paio di libri del Guicciardini in castigliano. Si contornava di figure letterarie di grande importanza, come Quevedo, e amava oltremodo il teatro, tant’è vero che diede un forte impeto al settore a Madrid, e in Spagna in generale. E anche su incoraggiamento di Olivares creò il Palacio del Buen Retiro, alla periferia di Madrid, che fu costruito molto rapidamente negli anni Trenta del secolo. Jonathan Brown e io abbiamo pubblicato un libro sulla storia del palazzo, che era al centro della vita di corte: c’erano gare letterarie, spettacoli teatrali, danze, e nel Salón de Reinos venivano accolti gli ambasciatori stranieri. Proprio per decorare le pareti del Salón fu commissionata una serie di dipinti, che dovevano comunicare le glorie dei regni di Filippo IV e la continuità della dinastia, che infine ebbe un successore, il principe Baltasar Carlos.

Uno dei dipinti più celebri nel Salón de Reinos era La recuperación de Bahía de Todos los Santos, oggi al Prado…

Una formidabile affermazione, e molto insolita nell’Europa di quel tempo: c’è un monarca vittorioso in battaglia, consigliato da un ministro anch’egli raffigurato nel dipinto, che era uno dei più importanti nel Salón. E  dopotutto si trattava di monarchia globale, un impero globale, sebbene tecnicamente non chiamato impero ma monarquía. E c’era senz’altro un messaggio forte nel riprodurre e commemorare delle vittorie, molte delle quali si erano verificate prima o intorno al 1625, annus mirabilis della Spagna, inclusa naturalmente la resa di Breda [del 1625], che fu dipinta da Velázquez. Il sostegno del re a Velázquez, per inciso, fu critico nel perpetuare la memoria di Filippo IV: quasi tutto di lui è svanito, ma le opere di Velázquez sopravvivono, ed è attraverso gli occhi di Velázquez che vediamo la monarchia nei suoi ultimi vent’anni di egemonia europea.

Gli anni Venti e Trenta del Seicento sono anni critici…

Sono anni critici, dopo un periodo – sotto Filippo III e il duca di Lerma – che è rappresentato, nella narrativa prodotta dal regime di Olivares, come di declino e corruzione. Quello di Olivares è un regime riformista che pensa che la Spagna stia perdendo quota, che la Francia sia un pericolo continuo, che la guerra nei Paesi Bassi sia estremamente seria.

In effetti quando Filippo IV divenne re la Castiglia, il nerbo della monarchia, era in una fase di forte stress economico e demografico, è corretto?

Sì, la Castiglia era pesantemente sfruttata ovviamente, perché era la più facilmente tassabile tra le diverse parti della monarchia. Bisogna ricordare che la monarchia spagnola era quella che oggi chiamiamo una monarchia composita costituita da diverse parti. E tali parti dovevano essere preservate, secondo i documenti dell’unione delle corone di Castiglia e Aragona al momento del matrimonio di Ferdinando [d’Aragona] e Isabella [di Castiglia] nel 1469. Dunque quella spagnola era una monarchia con diversi domini e parti, e tutti avevano le loro leggi e i loro privilegi. Filippo II pose la capitale della monarchia a Madrid, ma le varie parti continuarono parzialmente a governarsi, sebbene esse avessero viceré mandati da Madrid, i cui poteri però erano alquanto limitati.

Il risultato fu che la Castiglia era la più pesantemente tassata delle regioni e dei regni della monarchia spagnola, con la crescente eccezione di Napoli la cui tassazione divenne piuttosto pesante nel tardo XVI secolo e nel corso del secolo seguente. Ma era di gran lunga la Castiglia a sopportare il fardello sia di pagare le tasse per gli enormi bisogni di una corona spagnola indebitata, sia di fornire gli uomini per gli eserciti di Filippo IV. In particolare l’Armata delle Fiandre, che combatteva nei Paesi Bassi da circa sessant’anni, drenava moltissime risorse, e gravava sulla Castiglia in particolare, esacerbandone i problemi.

In aggiunta a ciò Filippo III e Filippo IV dovettero ricorrere ai banchieri, banchieri stranieri: i Fugger all’inizio, ma poi sempre di più i banchieri genovesi, quindi, a tempo debito sotto il conte-duca di Olivares, anche i banchieri portoghesi (dopo il 1580 il Portogallo divenne una parte importante e integrata, seppur in qualche modo marginale, della monarchia spagnola). E inevitabilmente questi banchieri, i cui servizi erano essenziali per finanziare le truppe allo scopo di prevenire ammutinamenti e garantire i rifornimenti, badavano ai loro interessi…

E questo aggravava la situazione della monarchia…

Era monarchia pesantemente indebitata e molto dipendente [dai banchieri], e la Castiglia sopportava gran parte del peso di tutto questo. Ed ecco perché Olivares cercò di riformare il sistema e di creare una monarchia assai più unificata, a partire da quella egli chiamò Unión de Armas nel 1625-1626; ciò generò sempre più forti tensioni alla periferia della penisola iberica: in Portogallo e, sempre di più, in Catalogna, tema su cui ho scritto un libro molti anni fa, The Revolt of the Catalans.

In quel libro lei analizzò le origini di quella rivolta…

Esatto. Le pressioni da parte del regime di Olivares andarono crescendo nei tardi anni Venti e negli anni Trenta. Nel 1635 scoppiò la guerra aperta con la Francia, che cercò di invadere l’area di frontiera pirenaica a cavallo tra i paesi. La pressione sui contadini catalani crebbe molto in fretta, e nel giugno del 1640 molti insorti (mietitori, in vista della mietitura del raccolto) discesero su Barcellona, il viceré [il conte di Santa Coloma] fu assassinato mentre cercava di fuggire, e nei mesi seguenti i catalani cercarono di creare una Repubblica Catalana indipendente sotto Pau Claris, il leader della Generalitat (una sorta di comitato di auto-governo delle Corts Catalanes), ma questo era impossibile perché la Catalogna non aveva le risorse e la Francia di Richelieu insisteva che la Catalogna diventasse un protettorato della Francia. Così effettivamente dopo una sola settimana di indipendenza nel gennaio 1641 la Francia assunse effettivamente la gestione della Catalogna e della sua difesa, e la guerra andò avanti sino al 1652.

Filippo IV fece enormi sforzi per riconquistare la Catalogna. La guerra durò dodici anni, e ciò in parte fu dovuto al fatto che in Portogallo [un regno della monarchia spagnola dal 1580] si verificò un golpe de estado, un colpo di stato contro il regime spagnolo. E dunque il re dovette usare parte delle risorse disponibili per difendere la Spagna, e parte per cercare di recuperare il Portagallo. Le pressioni sulla monarchia furono enormi, e in un certo modo è stupefacente quanto sopravvisse; ma il Portogallo fu perso per sempre, e per buone ragioni: i portoghesi ricevettero il supporto di olandesi, inglesi e francesi, che erano particolarmente interessati all’impero portoghese d’oltremare e alla ricchezza del Brasile.

La Catalogna, nel Mediterraneo, dava un contributo inferiore all’economia spagnola. In ogni caso pure i francesi iniziarono a perdere interesse una volta che il cardinal Mazzarino subentrò al cardinal Richelieu, in quanto il suo interesse era tutto concentrato sull’Italia. Il graduale indebolimento del supporto militare e finanziario francese ai catalani condusse Barcellona ad arrendersi nel 1652. In ogni caso recuperò più o meno le libertà e i privilegi di cui godeva prima delle rivolte del 1640. E così la natura composita della monarchia spagnola rimase intatta sino alla morte dell’ultimo membro della dinastia, Carlo II, unico superstite dei figli maschi avuti da Filippo IV in seguito al suo secondo matrimonio, dopo la morte della prima moglie, Elisabetta di Borbone.

Filippo IV ritratto da Diego Velázquez, Frick Collection – New York

La monarchia composita resse, insomma.

È una storia di declino, ma anche di sopravvivenza. L’enfasi è assai fortemente posta sul declino, ma in realtà c’è un rinnovato interesse nella resilienza e nella capacità di sopravvivere della Spagna e del potere spagnolo persino negli ultimi anni di Carlo II. Ovvio, con l’arrivo dei Borbone si avrà un nuovo approccio al governo. Durante il regno di Filippo V saranno abolite le libertà dell’Aragona e della Valencia, e poi ci sarà la sconfitta dei catalani per opera dell’esercito spagnolo. Si affermerà un nuovo sistema di governo, centralizzato e ispirato a quello francese, e questa più o meno sarà la fine della monarchia composita, che era stato il sistema prevalente di governo dal tempo di Carlo V [Carlo I, in Spagna] alla morte di Carlo II duecento anni dopo.

Professore, quale fu l’errore più grande di Filippo IV a suo parere?

Penso sia stato non aver raggiunto un accordo con i ribelli olandesi in tempo. I negoziati di pace ebbero inizio quando gli olandesi erano sotto pressione, ma Olivares pensava sempre di poter ottenere un po’ di più, gli olandesi però ottenevano una nuova vittoria e quindi il loro atteggiamento cambiava… Il punto è che i Paesi Bassi erano così importanti per Filippo IV e per gli Absburgo di Spagna, in parte perché era da lì che la dinastia aveva origine [Carlo V era nato a Gand], ma anche per via dell’accesso che offrivano all’Europa settentrionale e alla regione baltica, però ritengo che questo costante rifiuto di valutare seriamente la possibilità di un’altra tregua o di una pace permanente fu un grosso errore. La pace con gli olandesi arrivò nel 1648, e fu inevitabile, ma con tutta probabilità fu rimandata troppo a lungo, sebbene possa perfettamente capire l’investimento emotivo di Filippo IV e del suo regime nell’eredità borgognona nei Paesi Bassi, e i vantaggi economici e finanziari e fiscali di questi legami con quelle province, e la speranza di spingere l’Inghilterra protestante in guerra contro la Francia. Ecco, la Spagna sopravvalutò la potenza militare e navale degli inglesi, e questo fu un altro errore. Il governo di Carlo I era una causa persa da questo punto di vista, non aveva né la forza né una politica coerente per approntare delle soluzioni in quest’ambito. La dipendenza della Spagna da un intervento inglese nella guerra contro francesi e olandesi fu un altro errore di Filippo IV e del suo regime.

Lei ha scritto un capolavoro della storiografia, Il miraggio dell’impero (Salerno Editrice) e l’Olivares è il suo grande protagonista. Il conte-duca fu un valido molto diverso dal Lerma, era tante personalità in una sola persona per così dire…

Penso sia un’osservazione corretta. Il duca di Lerma era molto interessato agli apparati del potere, al fare gli interessi suoi e dei suoi parenti, assicurare un futuro alla casa di Sandoval, gli piaceva molto la maestà e la pomposità del potere. Olivares faceva i suoi interessi, ma era un primo ministro che lavorava molto sodo, ed estremamente sollecito, altamente consapevole delle sue responsabilità. Egli adorava la persona del Filippo IV, che simboleggiava tutto il potere e la maestà della monarchia, e perciò si sforzava di vedere se stesso come un fedele servitore del re determinato a fare di esso, di nuovo, il più potente sovrano del mondo.

Olivares si ammazzava di lavoro, in effetti. Era sempre circondato da mappe, interrogava le persone di continuo, e poteva essere brutale in quei colloqui, estremamente brutale, ma anche piuttosto seducente, quando voleva persuadere qualcuno. E quindi lo storico può avvertire la sensazione di questa fortissima personalità al centro del potere a Madrid, anche se consacrata a innalzare la persona del re. Ma inevitabilmente Filippo era destinato, in una certa misura, a vivere all’ombra di questo primo ministro super-dominante, molto scrupoloso, che sapeva esattamente cosa si doveva fare: voleva in generale riformare la Spagna, trasformare di nuovo gli spagnoli in una stirpe di mercanti, probabilmente una visione piuttosto fantasiosa e ardua da concretizzare in quegli anni, ed emulare i successi delle potenze protestanti del nord nel fondare compagnie commerciali, rendere i fiumi navigabili e così via. Il conte-duca aveva una gigantesca agenda riformista, e tentò di portarla avanti persino nei tardi anni Trenta, dopo lo scoppio della guerra aperta con i francesi. Olivares, semplicemente, cercava di fare troppo al momento sbagliato, e non sceglieva le priorità nel modo giusto forse. Ma si può capire perché volesse accertarsi che il programma di riforme gli sopravvivesse e rimettesse in salute la monarchia dopo il periodo di declino aperto dal suo predecessore il duca di Lerma, che lui disprezzava totalmente.

La prima parte del secolo, professore, è stata caratterizzata dai primi grandi primi ministri: penso a Buckingham in Inghilterra, a Richelieu in Francia, appunto a Olivares in Spagna.

È corretto, e la causa di questo fenomeno è spesso attribuita alla debolezza personale dei re. Il punto è che il governo era ormai diventato così complicato e sofisticato che nessun monarca poteva controllare ogni cosa. Trasferire una certa quantità di potere a un primo ministro era un modo logico di procedere. Il problema era che questi primi ministri sono anche parte di un sistema clientelare, devono inserire nel governo le loro famiglie per assicurarsi lealtà assoluta, ad esempio, e questo porta a nuovi cicli di corruzione… Insomma, l’ascesa dei primi ministri non è certo una risposta infallibile al problema del governare, ma è un tentativo di risposta, particolarmente forte nella prima metà del XVII secolo.

A mio parere è molto interessante notare che l’uomo che cercò di “castiglianizzare” la monarchia, di rendere la Spagna più simile alla Castiglia non era castigliano ma andaluso, di Siviglia per la precisione.

Suppongo sia uno dei paradossi [dell’uomo], ma dopo tutto il casato dei Guzmán, il ramo cadetto da cui il conte-duca proveniva, si era molto mescolato con l’aristocrazia castigliana grazie a matrimoni nel corso degli anni, così da quel punto di vista molti aristocratici andalusi avevano una qualche posizione, famiglie, e network, a Madrid.

In ogni caso le riforme progettate da Olivares fallirono, ma anche perché dovette fronteggiare un’enorme resistenza. Molti in Spagna non volevano riforme reali, sostanziali. Potremmo dire che non solo il conte-duca di Olivares ma i vari territori, i domini che costituivano la Spagna, fallirono.

Sì, ci fu un’enorme resistenza perché c’erano così tanti vested interests, come può immaginare Catania. Tali interessi particolari erano determinati a proteggere se stessi: parlo ad esempio dei proprietari terrieri, della chiesa, delle università, degli ordini religiosi… Olivares aveva mezza Spagna contro di lui! [ride] E poiché l’altra metà era pesantemente tassata, egli perse molto rapidamente sostegno. Ovunque si girasse, si trovava di fronte un muro di mattoni.

Professore, secondo lei cosa sarebbe successo se Olivares fosse rimasto in Andalusia?

Ah, qualcun’altro sarebbe diventato favorito primo ministro, penso per esempio a Manuel de Moura Corte-Real, secondo marchese di Castel Rodrigo. Egli aveva forti ambizioni e buone possibilità di prendere il controllo, e una delle cose che Olivares fece fu mandarlo via dal paese inviandolo a Roma come ambasciatore. Lo teneva lontano da Madrid. Fu una costante politica di Olivares tenere lontani possibili rivali. Era una prassi comune anche nelle altre monarchie europee quando avevano primi ministri e favoriti come Olivares.

Il conte-duca di Olivares ritratto da Diego Velázquez, Museo del Prado, Madrid

Professore, il suo interesse per il conte-duca di Olivares iniziò al Prado, quando vide il grande ritratto dello statista per opera di Velázquez. Nel suo libro History in the making, edito da Yale University Press, lei ha definito l’opera del grande pittore “un ritratto che incarna l’arroganza del potere”.

Esatto. Basta dare un’occhiata a quel volto per vedere la suprema fiducia dell’uomo in quel momento, ma è molto interessante confrontare quel ritratto con un altro ritratto, fatto intorno allo stesso periodo da Velázquez, e oggi conservato all’Ermitage di San Pietroburgo; Olivares lì è un uomo esausto, ha ovviamente perso i denti. Ne possiedo una copia, realizzata dalla scuola di Velazquez, è appesa qui nel mio studio, e mi osserva con quel suo sguardo alquanto maligno. [si sente sorridere] Dunque ci sono due Olivares: quello in mostra, e quello che si sta uccidendo.

Abbiamo appena pubblicato un secondo volume della serie che ho iniziato con José Francisco de La Peña negli anni Settanta, Memoriales y cartas del Conde Duque de Olivares. L’abbiamo pubblicata poche settimane fa con Fernando Negredo; sa, José Francisco de La Peña è morto tragicamente giovane, nei primi anni Novanta… Questo volume è la corrispondenza da ambo le parti tra Olivares e il fratello più giovane del re [il cardinale-infante Ferdinando], che era governatore dei Paesi Bassi e comandante dell’Armata delle Fiandre tra il 1635 e la sua morte nel 1641, e benché gran parte di questa corrispondenza riguardi inevitabilmente questioni militari – la guerra con gli olandesi, i bisogni finanziari dell’Armata –, molte delle lettere di Olivares sono affascinanti per il vocabolario che utilizzava, un vocabolario molto spesso assai vivido, che meriterebbe uno studio filologico da un esperto con una buona conoscenza della letteratura spagnola, perché penso rivelerebbe molti aspetti della personalità e della mentalità di Olivares, cosa che non è stata pienamente esplorata.

La psicologia di Olivares è stata oggetto del lavoro del medico e studioso spagnolo Gregorio Marañon, autore de El Conde-Duque de Olivares. La pasión de mandar, pubblicato nel 1936…

Sì, una biografia davvero affascinante, che fu pubblicata nel peggior momento possibile, nel 1936, alla vigilia della guerra civile spagnola. Il libro è soprattutto sulla personalità dell’uomo, c’è solo un capitolo sul suo lavoro come statista, ed ecco perché scelsi di scrivere quella che chiamo una biografia politica, che non si occupa della personalità di Olivares tanto quanto della sua traiettoria e intenzioni, i suoi piani, le sue politiche e il fallimento delle sue politiche, ma ero pienamente a conoscenza del libro di Marañon, che ha un suo valore intrinseco e un suo interesse; è così ben scritto, fece un bel po’ di ricerche di archivio (o ci fu chi lo assistette in esse) a Simancas e altrove.

Sarò sempre grato a Marañon, anche se non accolgo le sue spiegazioni psicologiche, che sono principalmente il risultato degli sviluppi della psichiatria e della psicologia negli anni Venti e Trenta, che collegavano le attitudini mentali e la personalità del soggetto studiato alla visione convenzionale di quel periodo. Mi riferisco in particolare allo psichiatra tedesco Ernst Kretschmer, alla relazione tra l’obesità e la magrezza di una persona e la sua personalità. In base a questa teoria infatti Richelieu è il tipo astenico, l’individuo magro, sospettoso, mentre Olivares è obeso e dalla personalità dominante.

Lei racconta, nel già citato History in the making, che Fernand Braudel le consigliò di non occuparsi del conte-duca e del suo programma di riforme. Per fortuna non seguì quel consiglio!

[ride] Beh sì, sono lieto di non averlo seguito, ma fui piuttosto scosso da quanto mi consigliò, come può immaginare. Farebbe molto meglio a studiare le finanze del periodo di Olivares, fu il suo consiglio, ma io mi dissi che non avrei seguito il suo suggerimento perché pensavo che la storia politica fosse fuorimoda alla scuola degli Annales di Braudel, che in quel periodo era la scuola storiografica dominante. Le sue parole però mi aprirono gli occhi sull’importanza di comprendere le finanze spagnole di quel periodo, così mi immersi nelle carte economiche e finanziarie dell’archivio di Simancas, e sono felice di averlo fatto, perché ciò mi permise di capire molto meglio le difficoltà e i limiti dei parametri entro cui il conte-duca operava.

Professore, cosa si ricorda di Braudel?

Era – ovvio – un uomo estremamente intelligente, molto acuto… molto dominante. Voglio dire, era abituato a fare a modo suo, e penso che fosse un po’ troppo circondato da cortigiani, probabilmente. Avemmo un curioso incontro molti anni dopo: quando vivevo negli Stati Uniti egli diede una lezione alla John Hopkins University, penso sul sistema-mondo o qualcosa del genere, e non appena ebbe finito di parlare disse: “Il professor Elliott siede nel pubblico, cosa pensa del mio intervento?” e come lei può immaginare Catania mi accigliai in quel momento, dovetti anche rispondere in francese… ovviamente Braudel voleva dare prova di dominanza, e io pensai che era piuttosto tipico di lui. Non era un uomo modesto.

J. V. Vives

Lei ha avuto modo di conoscere bene Jaime Vicens Vives, uno dei più grandi storici spagnoli dello scorso secolo. In Italia, putroppo, è noto ai non-addetti ai lavori solo per il suo Profilo della storia di Spagna, pubblicato da Einaudi.

Oh sì. Dato che i documenti sulle politiche domestiche di Olivares non erano sopravvissuti, e gli archivi del duca d’Alba al Palacio de Liria, a Madrid, erano stati distrutti da degli incendi, dovetti scegliere per i miei studi uno dei due grandi eventi del regno di Filippo IV: la rivolta del Portogallo o la sollevazione della Catalogna. Grazie al Cielo scelsi la sollevazione della Catalogna; infatti poiché la rivolta portoghese fu sostanzialmente un colpo di stato, non è sopravvissuta molta documentazione, mentre l’archivio generale della Corona d’Aragona a Barcellona si dimostrò enormemente ricco per quanto concerne le politiche del Consiglio di Aragona.

Vede Catania, mentre lavoravo nell’archivio Jaime Vicens Vives, che era professore di storia moderna all’Università di Barcellona, veniva e vedeva come se la cavavano i suoi studenti; era assai scrupoloso, e molti di quegli studenti sarebbero diventati storici a pieno titolo. Un giorno mi chiese cosa stessi facendo, gli spiegai quanto stavo cercando di fare, e lui mi disse: “Venga alle nostre riunioni settimanali a casa mia, discutiamo degli ultimi sviluppi della storiografia e di molto altro”. Accolsi l’invito e divenni parte della cerchia di Vicens. Diceva che la sua missione era demitizzare la storia nazionalista, sia catalana che castigliana, e trascendere questi puti di vista ristretti e provinciali. La storiografia nazionalista catalana era estremamente forte e allora rappresentata da Ferran Soldevila, uno storico molto capace, entro quei particolari limiti.

E così passavamo ore a cercare, con un certo entusiasmo, di demitizzare e denazionalizzare la storia catalana. Probabilmente esageravamo, ma fu molto divertente sinché durò. E certo, la morte prematura di Vicens fu una terribile perdita non solo per la storiografia catalana ma per tutta la storiografia spagnola. Ciò che Jaime Vicens Vives sperava di fare era formare una nuova generazione che prendesse il potere e il governo dopo la morte di Franco, e preparava questi giovani dando loro un senso più cosmopolita della Spagna e della sua posizione nel mondo, in modo da aggiornare il paese, e modernizzarlo nei suoi atteggiamenti. Tutto ciò però sarebbe stato frustrato dalla sua morte… Penso che Franco gli offrì, o cercò di offrirgli, un ruolo nel governo una o due volte nel suo corso della sua vita, ma egli rifiutò perché le sue condizioni non erano accettabili a Franco e le condizioni poste da Franco a Vicens non erano accettabili per lui. Così nulla accadde.

Si tratta di una storia di opportunità perse, e una delle cose che oggi mi ferisce di più è che in qualche modo quella mitologia è ritornata con il movimento indipendentista catalano, dagli anni Novanta in poi, dopo l’entrata in vigore della nuova costituzione spagnola. Costituzione che accettava l’idea di una Spagna pluralista; tuttavia non sono mai state implementate le riforme in un modo che avrebbe potuto rendere il paese davvero più pluralista. Come risultato di ciò, il gruppo – guidato da Jordi Pujol – giunto al potere dopo il 1978 per governare la Catalogna era determinato a rafforzare la natura catalana della società, a decastiglianizzare una società che in una certa misura si era castiglianizzata con l’immigrazione di lavoratori da altre parti della Spagna nonché dall’estero. Così Pujol voleva rendere la società più catalana in termini di uso del linguaggio e rinascita della cultura catalana.

E a mio parere la pressione generata da Jordi Pujol e dal suo gruppo, quella pressione ha significato che i catalani più estremisti hanno iniziato a prendere il controllo di pezzi della vita universitaria e dalla vita culturale. Tale atteggiamento, dopo il grave collasso finanziario del 2008, ha preso il sopravvento nella vita culturale e linguistica della Catalogna e, penso, sta portando al ritorno della storiografia nazionalista che Vicens, i suoi studenti e io avevamo cercato così tanto di smantellare. È mia intenzione parlar chiaro con quei catalani che stanno ora disfacendo così tanto del buon lavoro svolto da Vicens; costoro devono sapere che non si può ridurre il passato in bianco e nero, ci sono molte sfumature di grigio tra il bianco e il nero. E penso che ogni buono storico dovrebbe mettersi nei panni di coloro con cui è in disaccordo. In quel senso io mi sono dovuto mettere nei panni di Olivares, ma ovviamente da storico a un certo punto devi fermarti e dirti: “Bene, vediamola dall’altro punto di vista”. Ti devi sempre controllare, disciplinare, e nella mia lunga carriera da storico penso di aver imparato il rilievo dell’autodisciplina quando c’è troppa empatia, od ostilità. L’autodisciplina è una necessità, ma temo che oggi non venga tenuta abbastanza in considerazione. Si dà troppo spazio alle emozioni.

Controllare le emozioni è una lezione di vecchia data. Senza scomodare gli antichi, si pensi solo a un quasi-contemporaneo di Olivares, Justus Lipsius…

È esatto. Bisogna controllare le emozioni e vedere dove esse conducono.

La resa di Breda di Diego Velázquez, Museo del Prado, Madrid

Lei, professore, ha fatto molto ricorso al concetto di monarchia composita. Il professor Aurelio Musi ha definito quello spagnolo un “sistema imperiale”. Qual è il suo punto di vista a riguardo?

Beh, era un sistema nel senso che c’era un sistema di governo su scala globale creato da Madrid. In quel senso si può usare, penso, la parola “sistema”. Ma a causa della tirannia della distanza, dell’enorme lasso di tempo necessario per far arrivare un dispaccio da Madrid sino a Lima, e poi da Lima a Madrid, inevitabilmente esso rimase una monarchia composita nel modo in cui funzionava, semplicemente perché non si potevano attuare le istruzioni a distanze del genere. Così io rimango attaccato alla mia idea di monarchia composita attraverso il globo, e ciò vale pure per i domini portoghesi… Sì, preferisco la definizione di monarchia composita riconoscendo che ci fu sempre un tentativo di rafforzare il sistema imperiale.

Forse si potrebbe pensare a un centro mediterraneo che, grazie al mare nostrum, riesce a farsi sistema imperiale, e a una periferia atlantica (e pacifica) dove le distanze sono così enormi da far predominare l’elemento della differenza… Professore, un’ultima domanda: nella visione braudeliana, l’individuo ben poco può contro le leggi ferree dell’ambiente, e le leggi bronzee delle strutture economiche, demografiche, sociali, che plasmano i destini collettivi. È, per citare Braudel, imprigionato in un destino nei cui confronti egli poco può. A suo parere qual è il ruolo storico dell’individuo? Quanto può essere importante?

Beh, nel mio Olivares ho cercato di mostrare che l’individuo è importante, ma la mentalità della École des Annales in quel periodo era così concentrata sulla geografia, sull’ambiente, sull’economia, sulla finanza ecc., che penso tendesse a trascurare e ignorare tutto ciò che io chiamerei elementi umani. Così Filippo II veniva dipinto come una vittima del suo stesso sistema, delle forze economiche e non solo, ma se lei legge il lavoro di Geoffrey Parker su Filippo II – e lui è diventato un autorevole esperto di Filippo II leggendo un’enorme quantità di documenti – vedrà che il re prendeva la sue decisioni: alcune di esse funzionavano, alcune no, e non tutte erano determinate dell’ambiente, dall’economia, dalle forze sociali.

Grazie, professore.

 

 

 

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