Salute mentale
Si può insegnare l’altruismo per ridurre il tasso di violenza
“A un certo punto mi hanno parlato anche di come era vestito Kurt Kobain quella notte che lo portarono moribondo in astanteria: jeans strappati, maglietta bianca con i muscoli disegnati sul ventre, Rolex d’oro al polso sinistro, Cartier a quello destro”.
Con l’etichetta editoriale di ‘cannibale’ si identificava, a partire da metà anni Novanta, una eterogenea serie di scrittori giovani che nelle nuove forme del pulp, di derivazione soprattutto nordamericana, trovavano la loro più congeniale forma d’espressione. Il termine pulp nasce negli Stati Uniti degli anni Venti per definire quel genere estremamente popolare di rivista contenente storie a puntate, spesso di carattere raccapricciante, erotico, o weird. Per pulp si intende, sulla scia del noto film di Quentin Tarantino, Pulp Fiction, l’ossessione estetica e in particolar modo letteraria per i temi della violenza, del sangue, della droga, della marginalità, del paesaggio post-industriale, dell’inebetimento provocato dall’assuefazione televisiva, dell’apatia giovanile di una generazione che alla soglia dei trent’anni si sente ancora preda di un’infanzia mai dismessa. Tra questi scrittori si annoverano di solito in Italia, fra gli altri, Niccolò Ammaniti, Aldo Nove. Il 1996 rappresenta per questa nuova tendenza letteraria un vero e proprio anno di svolta: oltre all’antologia di racconti Gioventù cannibale, vengono pubblicati la raccolta Fango di Ammaniti. Testi per ‘palati forti’ basti citare l’uscita, nello stesso 1996, di Fight Club, romanzo che segna l’esordio di uno degli autori statunitensi più influenti della generazione pulp: Chuck Palahniuk ha uno stile e un appeal tipici della letteratura underground e ribelle.
Dal genere letterario alla realtà.
Oggi è raro che ascoltando notizie al telegiornale, la violenza non ci esploda in casa con parole, immagini, senza parlare del ruolo del social, sfogatoio di rabbia e atteggiamenti volgari e scorretti.
Il bullismo e l’organizzazione in bande giovanili più o meno strutturate sono facce di fenomeni analoghi, ma con differenze sostanziali. Il bullismo si esercita contro obiettivi noti, ed è spesso perpetrato da un soggetto singolo, magari attorniato da altri che svolgono una funzione da coro o da claque. Le gang, invece, sono alimentate dalla coesione collettiva e colpiscono indiscriminatamente.
Dinanzi a fenomeni dilaganti di violenza, agita, filmata, condivisa in gruppo in presenza o sui social, bisogna ribadire che sebbene la scuola sia un ambiente educativo d’apprendimento, dove le regole della convivenza democratica si sperimentano, o si dovrebbero sperimentare, ogni giorno, la famiglia resta la prima agenzia educativa. Il luogo in cui un bambino può essere educato all’altruismo disapprovando ciò che può far male agli altri.
Hobbes affermava che le nostre azioni sono sempre dettate dall’utile personale anche quando sembrano ispirate all’altruismo o alla benevolenza nei confronti degli altri. A chi gli chiese, vedendolo fare l’elemosina, il motivo di quel gesto, egli spiegò che cercava di alleviare il proprio malessere alla vista del malessere del mendicante.
Se i numerosi conflitti e le guerre, che dilaniano il mondo da sempre, sembrano convalidare la tesi di Hobbes, le radici dei comportamenti prosociali dimostrano che esistono un autentico altruismo, le cui tracce innate sono già visibili nei primi giorni di vita sotto la forma dell’empatia.
Se vi siete mai recati in una nursery della neonatologia, avrete notato che i neonati entrano in risonanza con il pianto degli altri neonati fin dai primi giorni della vita in una sorta di contagio emotivo. Quando, in seguito, riescono a mettere a fuoco il viso degli adulti che si prendono cura di loro, si sforzano di imitarne le dinamiche. A tre, quattro anni possono immedesimarsi con la persona che soffre e cercare di fornire consigli e aiuti.
L’attitudine empatica a lasciarsi coinvolgere dalle emozioni degli altri rivela la presenza di un programma psicobiologico innato che per evolvere in altruismo vero e proprio, però, deve trovare completamento non solo nella maturazione del bambino, ma anche nell’educazione e nello apprendimento. Inizialmente c’è infatti una difficoltà nel tracciare un confine netto tra sé e gli altri, cosicché da piccoli si reagisce al dolore dell’altro come se avesse colpito se stessi
Intorno ai tre anni si prova empatia per fenomeni più complessi. Ricordo ancora oggi con forte angoscia l’incidente di Vermicino e la tragica morte di Alfredino Rampi. Aveva un anno meno di me, io allora avevo 7 anni, ho trascorso notti insonni, piangendo. I miei dovevano staccarmi dalle dirette televisive e la mattina puntualmente mi svegliavo prima di loro e aspettavo il collegamento con quella tragedia. Ancora oggi uno dei casi mediatici più rilevanti della storia italiana, quei tre giorni a me parvero tre mesi.
L’aiuto al prossimo è più probabile non solo se si condivide il dolore dell’altro, ma se si capisce anche come costui vede il mondo. Lo scambio di ruolo ad esempio è un esercizio che già nella primaria si pratica spesso, l’aiuto e il conforto nasce proprio dalla capacità di uno scambio di prospettiva. Se la maturazione cerebrale è uno dei motivi di maturazione di questa capacità, il tipo di cultura in cui il bambino è inserito e l’educazione che riceve ha un’influenza cruciale perché sviluppano caratteristiche fondamentali come una visione positiva delle persone in generale, l’interesse al benessere altrui, un sentimento di responsabilità personale per come stanno le altre persone. Il potenziale per diventare persone altruiste e sollecite oppure violente e aggressive dipende, quindi, dalle esperienze vissute nell’ambiente familiare: nessuno sarà altruista se le sue esperienze gli insegnano a curarsi soltanto di se stesso. Se sin da piccoli sono incoraggiati ad avere sempre la meglio sugli altri, a svalutarli, a maltrattarli, difficilmente saranno inclini ad aiutare il prossimo.
Siccome aiutare non vuol dire solo non aggredire e spiegare perché è male, ma rendere desiderabile l’altruismo, l’esempio degli adulti è fondamentale; il modo in cui i genitori conducono la propria vita influenza un bambino.
Più che delle spiegazioni, l’esempio risulta più efficace dato che i bambini orientano gusti e orientamento sui modelli che trovano nel loro ambiente di vita. Dare occasioni per aiutare, ad esempio prendendosi cura di un fratellino più piccolo o di un animale domestico, aiutare un compagno nei compiti, prendersi cura degli oggetti che il gruppo classe usa per svolgere attività insieme consente di sperimentare che cosa è un comportamento prosociale. Si mettono in atto, cioè, forme di condivisione e di responsabilizzazione che alimentano l’altruismo.
Pensarsi come persone capaci di aiutare alimenta quella sicurezza e quell’immagine di sé che spingono a intervenire, senza remore, ogni volta è necessario.
Per calarsi nel ruolo si possono organizzare giochi come quello dell’amico bendato in cui l’amico non bendato aiuta l’altro a portare a termine un compito come completare un labirinto o uscire da uno spazio accidentato.
Parlare di sentimenti propri e altrui serve ovviamente ad entrare nella pelle dell’altro, così come spiegare quali sono gli effetti degli atti violenti.
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