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Rinsta/Finsta: breve anteprima della fine di Facebook
Impara bene le regole e poi infrangile nel modo giusto, dice il Dalai Lama. Sembra che la Generazione Z l’abbia preso fin troppo alla lettera, al punto che potrebbe aver involontariamente innescato, sul lungo termine, la fine della madre di tutti i Social.
Dando per scontato che sul lungo termine siamo tutti morti, come affermava Keynes con il suo elegantissimo British Humour, non è folle pensare che tutte le cose che hanno un inizio abbiano anche una fine, sia che si tratti di mezzi, di mode, di relazioni, o proprio di abitudini che sembrano essersi talmente radicate nella nostra quotidianità da essere percepite come necessità e non più per quel che sono: spazi di intrattenimento. Questo sono i Social: questo, e tante altre cose che hanno potuto nel tempo “agganciarsi” alla tematica dell’intrattenimento (informazione, autorappresentazione, drama, chiacchiere da salotto nei commenti e via dicendo).
In che modo quindi la Generazione Z, su cui la maggior parte delle generazioni più grandi mostra un certo scetticismo – quando non si tratta di totale sfiducia o disapprovazione – potrebbe aver dato scacco matto alla Città Eterna Digitale? Come spesso accade, nel modo più semplice e inaspettato: spostando su Instagram quelle che, fino a poco tempo fa, erano funzionalità fruibili unicamente su Facebook. E infrangendo regole che, pur essendo presenti su entrambe le piattaforme, risultano comunque più aggirabili su Instagram.
Si ha quindi un Rinsta (Real-Instagram), profilo istituzionale che corrisponde in tutto e per tutto agli scopi del mezzo, e quindi contenuti di qualità, solitamente pubblici, di grande visività e perfettamente rappresentativi della persona e dello stile di vita che si intende trasmettere, e un Finsta (Fake-Instagram), un profilo secondario, destinato ad una cerchia più ristretta di amici, solitamente privato, su cui vengono condivisi meme, frasi, foto più “nature” e meno “vip” e video imbarazzanti; nel Finsta a prevalere non sono l’estetica o i contenuti di rappresentanza del proprio personaggio digitale, ma un compendio molto più sereno e senza pretese del Real-Me (primo paradosso: i contenuti più rappresentativi del sé su un account secondario “finto”), quello meno soggetto alla luce dei potenziali riflettori.
Quale esigenza ha portato a inventarsi un doppio account e a differenziare i contenuti? Come per tutti gli adolescenti, la risposta è spesso solo una: aggirare il controllo parentale di genitori sempre più digitalizzati e attivi su Instagram. Va infatti detto che non è un mistero che tra i contenuti resi privati sui Finsta “introvabili” se non per i pochi eletti a cui si comunica l’esistenza, girino anche contenuti dove gli ormoni possano trovare una loro via di sfogo.
Eppure l’argomento non è nuovo, se ne parla già dal 2015: perché allora è tornato fortemente alla ribalta nella seconda metà del 2018 e sembra che continuerà ad esserlo anche nel 2019? Perché, nel lungo termine keynesiano, i risultati di questa invettiva ribelle iniziano a farsi sentire accumulando i loro effetti a quelli di Cambridge Analytica, dei troll russi nelle elezioni americane che hanno portato alla vittoria di Trump, e delle conversazioni rese pubbliche da Jason Calacanis dove Zuckerberg dice “mi danno i loro dati, si fidano di me, che stupidi”.
Ma a differenza di chi si indigna per la privacy, per gli algoritmi misteriosi che contribuiscono alla strutturazione delle Echo Chambers, la Generazione Z sta inferendo Facebook la sconfitta più imbarazzante dichiarandogli a chiare lettere: non servi davvero, e quel che mi dai posso replicarlo in modo migliore su altre piattaforme che offrono meno strumenti migliori dei tuoi.
Ed è così che iniziano le rivoluzioni: spodestando i vecchi tiranni a favore di nuovi desideri destinati a diventare obsoleti, come ogni cosa creata per rispondere ad alle esigenze del presente.
Cover Credits: Jen Baumgardner for Elle ©
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