Benessere

Questione di confini: l’Altro chiamato Covid-19

18 Aprile 2020

Le crisi producono una lacerazione nella percezione di tutto quello che è per noi scontato: dell’ordine sociale che abbiamo conosciuto e guardato sino ad un attimo prima, delle routine e di tutte quelle piccole e grandi condizioni materiali quotidiane a cui siamo abituati, anche di quel senso di sicurezza implicito che ti accompagna quando dai per scontato che domani mattina al tuo risveglio ritroverai quello che hai lasciato la sera prima di addormentarti. La pandemia oggi ci ha gettati in questa condizione di lacerazione. Eppure che il ‘nostro mondo’ (nostro dal punto di vista di noi occidentali, o comunque di quello della minoranza egemonica nel mondo) continuasse a girasse sempre così come stava girando era tutt’altro che qualcosa di scontato e di replicabile all’infinito: l’incertezza, la precarietà – come molti scienziati sociali, politologi ed economisti ci dicono oramai da un bel po’ – è la cifra implicita e costante che caratterizza le nostre odierne società, catturate in processi economico-finanziari e tecnologici che non sono governati e governabili e nemmeno comprensibili dalla maggioranza di noi, ma controllati da piccolissime oligarchie tecniche e politiche. Viviamo al massimo, in un turbinio di azioni, movimenti, spostamenti, flussi di oggetti, persone e informazioni, e tutto questo è comodamente appoggiato sulla testa di uno spillo, ma di ciò non ne abbiamo consapevolezza, o non vogliamo averne per non affrontare l’angoscia che ci assalirebbe. I segnali sull’insostenibilità e sull’iniquità dei nostri stili di vita, a cui costantemente veniamo richiamati dall’ambiente e dagli altri esseri umani che non accedono al nostro banchetto quotidiano, gli esclusi che generiamo dentro e fuori i nostri Stati, non ci hanno mai veramente fatto vacillare, fino ad oggi. Fino all’incontro con un virus chiamato Covid-19.
La cosa interessante di questo incontro è che di colpo ha reso eclatante la nostra condizione, ha fatto balzare in primo piano le qualità del nostro quotidiano, senza attenuanti, senza permetterci di continuare a chiudere gli occhi. Come fosse una specie di evidenziatore passato su parole come globalizzazione, liberismo, sostenibilità, servizi sanitari, relazioni sociali, lavoro, il Covid-19 nella sua drammaticità disvela i meccanismi di funzionamento di queste nostre società capitalistico-tecnocratiche. Rende plastico quanto i nostri sistemi economici e produttivi siano dipendenti da vincoli sovranazionali e planetari; rende plastico il limite dell’accentramento e dell’inurbamento; rende plastico quanto quella sovranità che appartiene al popolo sancita dal primo articolo della nostra Costituzione sia diventata sfocata, sfuggente, una parola svuotata di fatto della sua performatività; rende plastico quanto le logiche di mercato corrano sulla pelle dei più, a discapito dei loro diritti fondamentali, come quello ad una vita dignitosa e alla salute. Insomma rivela la fragilità del sistema per un verso e la sua insostenibilità per un altro.
E le nostre relazioni?
Il contagio interessa tutto il pianeta, ha percorso i continenti mettendosi sulla rotta di quelle interconnessioni che fino ad oggi ci hanno sempre offerto il mondo dietro l’angolo. Così lo ha trovato dietro l’angolo anche Covid-19.
Questa pandemia mette in questione i rapporti tra gli Stati, i modi attraverso cui sino ad ora hanno comunicato, ma anche i fondamenti su cui si sono basate queste comunicazioni: cooperazione? interesse? comunione? Sfruttamento? Troveranno gli Stati strategie comuni e solidali di gestione della pandemia?
Niente confini per i mercati si è professato: libera circolazione di merci, di denaro, di servizi, di persone (dotate di cittadinanza si capisce). E oggi anche di virus. Ah no, di virus no! dicono tutti, cercando improbabili strettoie tra profitti liberisti e contenimento del contagio.
Di colpo i confini che gli uomini hanno disegnato sul pianeta appaiono troppo permeabili, poco spessi, il Covid-19 li mette in crisi, così come li mettono in questione i migranti, ma il virus ha di gran lunga più presa sulle nostre coscienze.
L’infezione in radice non è che una questione di confine. Le qualità del confine rivelano le qualità della relazione tra chi si trova al di là e chi si trova al di qua di esso. Le sorti della relazione tra il corpo dell’essere umano e il virus sono anche le sorti della relazione tra me e l’altro, tra noi e gli altri, tra uno Stato e l’altro, tra un popolo e l’altro. Siamo in regime di quarantena: per respingere il virus devo respingere gli altri, si chiama distanziamento sociale.
La Vita tuttavia è trasformazione a partire da differenze che si incontrano, si scontrano, imparano a dialogare, a co-esistere, si compenetrano, si mischiano e divengono altro. E poi ancora e ancora. Continuamente. Vivere è sporcarsi, contaminarsi, mischiarsi un poco o tanto con l’altro, dialogarci. La rapidità dell’arrivo di Covid-19 non ci dà il tempo necessario per conoscerlo, per apprendere le strategie immunitarie più idonee per gestirlo, per tenerlo sotto-controllo, per ridimensionarlo, per conviverci senza perire, perciò abbiamo preso tempo auto-isolandoci. Questa rapidità però non può farci perdere di vista che la risposta da trovare rimane una questione di relazione e di apprendimento, piuttosto che di chiusura del fortino e di guerra, rimane una questione di ridefinizione del nostro confine soggettivo e sociale, piuttosto che di suo ribadimento tal quale. Questa rapidità non può farci dimenticare che non è tutto merito, o colpa, del virus se si è scatenata una pandemia. Il virus non ha progettato di attaccare l’uomo, né ha progettato di andarsene a spasso per tutto il pianeta, a dispetto delle tante narrazioni che come tutti ho letto e ascoltato in queste settimane, pronunciate da diversi attori sociali e tutte convergenti su di una sorta di personificazione del virus a cui viene attribuita ogni sorta di pianificazione malefica contro l’essere umano. Siamo in guerra. Siamo attaccati da un nemico invisibile. Dobbiamo combattere. Gli ospedali sono il fronte. Quando Covid-19 verrà sconfitto dovremo impegnarci nella ricostruzione. Guerra, nemico, combattere, fronte, ricostruzione: perché le narrazioni sulla pandemia sono così intrise di lessico bellico? A quale esigenza performativa risponde?
Narriamo in vista di uno scopo ed esso modula la narrazione che costruiamo su di noi o su di un evento. Raccontando riveliamo anche, in filigrana, la nostra appartenenza ad un preciso scenario valoriale e di interpretazione del mondo, del mondo come lo vediamo e del mondo come lo vogliamo. E quello scenario rende possibili alcune narrazioni e improbabili o impossibili altre. Siamo fatti di parole, le nostre parole rivelano chi siamo, rivelano le intenzioni profonde dei nostri atti linguistici. Non sono neutre, a seconda di quali utilizziamo esse ci offrono campi di possibilità più o meno articolati, più o meno ampi, possibilità di fare o non fare, possibilità di essere in un modo o in un altro. Le nostre parole creano mondo, le nostre parole delimitano spazi di senso e di azione. Ancora una volta è una questione di confini. Neanche una grande emergenza deve farcelo dimenticare.
Allora credo che sia importante chiedersi quali spazi di azione ci offrono queste narrazioni della pandemia, che idee di mondo, di relazione, si portano dietro, in quali confini ci collocano. Che tipo di postura immunitaria, psicologica, esistenziale, sotto il profilo soggettivo, e poi organizzativa, politica, economica, sotto il profilo sociale, ci fanno assumere. Se è chiaro che dobbiamo neutralizzare il Covid-19 è altrettanto necessario lavorare per un come che sia commisurato, un come che lasci intorno a noi meno distruzione possibile, un come che comporti i minor costi sociali e relazionali possibili, un come che sia ecologico. L’ecologia non è un cappello da indossare all’occorrenza, e non è nemmeno ambientalismo: è una visione della relazione, in tutte le sue forme e tra tutti i sistemi biologici presenti sul pianeta. Il virus non ce l’ha con gli esseri umani, non è il nostro nemico, il virus conduce la sua esistenza, si adatta, prolifera, cerca condizioni di vita migliori, fa il suo gioco. Noi facciamo il nostro.
Superata l’emergenza cambierà tutto, altra narrazione diffusa. Cambieranno molte cose certamente, ma il segno di questi cambiamenti non è scontato, non è detto che sia positivo, è tutto da progettare. E sin da ora dobbiamo prestare attenzione a come possiamo narrarci progettualmente questi giorni, e a come ci vengono narrati.
Non sono convinta che la viratura semantica che abbiamo imposto sin qui alle nostre narrazioni su questa pandemia ci faccia troppo bene, non credo ci aiuti ad affrontarla nel giusto modo e soprattutto a riprendere subito dopo in modo diverso, rifondando profondamente il nostro modo di vivere, alla luce dei limiti di cui oggi tutti ci diciamo più consapevoli.

[Ph: CarloElmiroBevilacqua]
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