Salute mentale

Quando la morte si sovrappone alla vita

1 Aprile 2020

La vita e la morte, nella nostra cultura occidentale, sono due “fatti sociali totali” da sempre posti in antitesi fra di loro. C’è lo spazio della vita. E c’è lo spazio della morte.

Quest’ultima, spesso relegata ai margini dei discorsi, se non addirittura nascosta, allontanata, mostrata solo nel tempo in cui la si può racchiudere in un rituale comunitario (il funerale) e poi subito nuovamente desocializzata, confinata esclusivamente a discorsi di natura ospedaliera, biomedica, oggi, nel tempo dell’emergenza, si impone con forza.

E non si impone soltanto come paura della perdita della vita, ma proprio come fatto sociale connesso prepotentemente con essa.

Talmente connessa da emergere sotto il velo in cui era stata sempre nascosta come fattore depoliticizzato.

E’ la morte, a cui viene sottratto oggi per ragioni igienico sanitarie il recinto del rituale a cui era sempre stata relegata, a urlare la sua forza e ad additare, proprio grazie all’assenza di quel rituale di aggregazione, la sua stessa esistenza e a far emergere il valore della vita stessa.

Un paradosso, per la nostra cultura occidentale. Uno di quei paradossi delle catastrofi che, però, sempre emergono in tempi di emergenza.

Cos’è, oggi, la morte vissuta fuori e lontano dal recinto del funerale, se non, nella sottrazione dei simboli legati ai riti di sepoltura, il solo Grande simbolo di questo nostro drammatico tempo?

E’ difficile da ammettere, ma morire oggi significa non soltanto traslare dalla vita alla cessazione dell’esistenza, ma sovrapporsi ad essa. Lo vediamo nelle pratiche burocratiche e nei tempi di un lutto nel momento della pandemia. Morire, oggi, significa spesso condividere, nell’ attesa di un appuntamento verso la cremazione, gli spazi della quotidianità della vita. Salta il ritmo delle pratiche connesse alla tumulazione, a volte si accelera, a volte si dilata, ma salta proprio a piedi giunti dentro alle abitudini della vita stessa e ci costringe ad annebbiare la visione di quel perimetro entro il quale eravamo finora riusciti a confinare la morte.

Nella restrizione delle abitudini di vita, e dunque nella difficoltà o impossibilità di praticare i simboli delle nostre esistenze e con essi i significati condivisi socialmente, ecco che il pensiero va ad un simbolo molto più impattante, che su tutti emerge: quello della morte, che prepotentemente si riappropria del suo ruolo, che è quello di non essere in antitesi con la vita, ma di essere una fase antropologicamente inevitabile della vita stessa.

E lo fa con tanto di visibilità anche politica, e con un ruolo sociale molto più ampio di quanto possa essere quello di un rito funebre. Perché nella solitudine della morte, oggi, c’è una aggregazione di pensiero attorno ad essa.  Cosa che, prima, non c’era mai stata.

La vita e la morte oggi ci vengono restituite dalla scienza e dalla politica, impegnate nella gestione della pandemia da coronavirus, sotto forma di grafici, tabelle numeriche, curve matematiche, i quali piuttosto che aumentarne la distanza fra questi due fatti sociali totali, ci raccontano come in questa epoca si stagli con prepotenza una convivenza, seppur forzata, seppur traumatica, seppur vissuta con impotenza, ma reale, molto reale, con la cessazione della vita.

Come tutto questo emerga da ogni discorso pubblico è facile da intuire. Come questo si situi nello spazio mentale della paura, ancora di più. Ma come diverrà simbolo di portata storica e di memoria condivisa di ciò che ricorderemo di questo tempo è ancora di più fuor di discussione.

Nelle riflessioni su ciò che saremo poi, oltre a ricostruire ciò che sarà la nostra vita dovremo necessariamente ricorrere a nuove modalità di gestione delle perdite e ad un nuovo modo di intendere il passaggio dalla vita alla morte. Un pensiero che non è mai prima d’ora stato al centro della rappresentazione della nostra comunità occidentale, in quanto relegato nel cassetto delle cose da nascondere.

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