Relazioni
Piccole grandi orme per salvare il mondo
Diversi mesi fa insieme ai colleghi del CSV Lombardia Sud di Mantova abbiamo realizzato un percorso di ricerca per avvicinare più generazioni attorno al tema dell’attivazione e della promozione sociale. Animati dalla curiosità di ascoltare giovani e meno giovani, sono state avviate alcune iniziative per riflettere con loro sugli ingredienti che motivano oggi le persone a dedicare del tempo al volontariato. Tra le diverse domande e suggestioni ci siamo ritrovati una sera di novembre con alcuni adulti rappresentanti del mondo associativo, chiedendo loro al termine dell’incontro di suggerire un possibile invito o slogan da rivolgere ai giovani per coinvolgerli in un progetto comune. “Salviamo il mondo!”, è stata la proposta di un partecipante. Uno slogan efficace che ci ha subito rapito, motivandoci ad allestire un contest intergenerazionale mirato a raccogliere idee o esperienze per salvare il pianeta.
Sono trascorsi solo due mesi dal giorno dell’evento conclusivo, nel quale ci siamo ritrovati ad ascoltare quei frammenti di vita, nutrendoci di intensi sapori: dal potere della relazione, all’urgenza educativa, alla cura ambientale. Un’energia rassicurante e “pronta all’uso”. Dopo una manciata di giorni, proprio quel mondo da salvare è cambiato velocemente. Per me, per noi, per tutti.
Ho trascorso i primi giorni del lockdown a tappezzare le pareti di post-it colorati con disegni o brevi frasi. Avevo necessità di fissare quelle piccole cose che forse davo quotidianamente per scontato. Profumi, sapori, sguardi. Desideravo osservarli. Lì, tutti quanti, davanti a me. E più li guardavo più mi rapiva la nostalgia di qualcosa che sentivo di aver interrotto. Mi chiedevo se avessi potuto fare altro. Eppure capivo che in fondo, in quel momento, mi bastava solo quello. Ho avuto bisogno di diversi giorni per poter dirigere i miei pensieri verso qualcosa di costruttivo, per mettere in moto ciò che Alessandro Baricco in un recente contributo pubblicato su Repubblica, ha esortato a fare, ossia a “passare all’audacia” e a “mettere da parte la tristezza, e pensare”[1]”. La mia mente è così tornata spontaneamente a quell’energico motto e ai suoi sapori, sentendolo più che mai urgente proprio in questo momento. Mentre la ricerca medica è impegnata a cercare nuove forme di cura e prevenzione per garantire la vita e la salute delle persone, ciascuno di noi ha la necessità di svolgere la propria parte, accompagnando il lodevole compito di “salvare il mondo” attraverso ciò che può mettere in campo. Occupandomi di sviluppo di comunità ritengo che proteggere il pianeta sia un’impresa davvero considerevole e per tale motivo richiede la messa in campo di uno sforzo comune, capace di mettere in moto pensieri, sentimenti e soprattutto la collaborazione di molti. In questo periodo è spesso impegnativo sognare, ma ho provato a giocare con questa fatica trasformando i miei pensieri in “piccole orme” a me prossime, che probabilmente un giorno si trasformeranno in passi. Ho deciso così di restare “a casa” non solo fisicamente, ma anche ascoltando ciò che anima i miei pensieri attuali più prossimi, appartenenti a ciò che vivo e alla mia professione. Ho la certezza che allentando la vita si apriranno ulteriori prospettive e, perché no, nuove riflessioni.
Abitare le storie: tra silenzi, grida e resistenza
Ho avuto modo di ascoltare colleghi e amici che abitano nelle zone più colpite. Ho capito come il fenomeno del contagio, seppur di portata mondiale, sia vissuto con una percezione fortemente variegata e localizzata. Chi lo vive nel profondo, perché abita in un territorio particolarmente interessato e sta diventando ogni giorno meno anonimo, coinvolgendo nomi e cognomi, persone care e prossime. Chi invece lo sperimenta con altre “geografie”, pur immerso in un fenomeno che ha improvvisamente sovvertito il personale ordine delle cose. Benché diverse queste esperienze sono fortemente accomunate dalle medesime qualità: impreviste, pervasive, totalizzanti. Di fronte ad un dramma così profondo non ci resta che condividere queste situazioni, abitando il dolore e la rabbia delle persone, ma soprattutto lasciandoci sorprendere della loro capacità di viverla, sopportarla e gestirla.
L’affinità empatica degli esseri umani è un ingrediente formidabile e indispensabile per sintonizzarci sulle situazioni che gli altri stanno vivendo, per poterci immedesimare e cercare di capire cosa significa realmente vivere e affrontare qualcosa che forse è davvero troppo enorme. È l’opportunità per de-centrarsi, per “compatire” nel suo significato originario, ossia quello di condividere dolori, fatiche, preoccupazioni, ma più in generale, riprendendo l’accezione greca, affetti e sentimenti. Ci appassioniamo quindi all’”altro” per superare così il diffuso senso comune e la fredda generalizzazione.
Lo psicologo Tom Wolff[2] nel suo più recente volume “The Power of Collaborative Solutions”, considera la compassione una bussola importante per generare cambiamento, una forza eterea e coesiva che, accompagnata dalla capacità di accettare, apprezzare e interconnettere, rappresenta per le comunità un fattore promozionale per creare collaborazione. Come evidenzia lo stesso Wolff, la capacità di aprirsi all’altro implica un impegno attivo e una responsabilità collettiva. Gruppi e persone “appassionate” degli altri, in grado di attrarne altre ancora, per organizzarsi in azioni in uno straordinario racconto comune.
Raccogliere, ricomporre, ricostruire, ridisegnare
In questi giorni sento la necessità di abitare il silenzio, lo sconforto e la rabbia di molte persone che stanno attraversando queste narrazioni. Mentre li sento raccontare sento sempre più emergente la responsabilità di custodire quello che mi stanno trasmettendo. Qualcosa di prezioso, da legittimare e raccogliere nell’immediato. Sono pensieri, grida e silenzi, racconti di collera e di angoscia, ma anche di resistenza. Penso ai diversi luoghi di prossimità che molti territori son riusciti ad allestire, con impegno e fatica, alimentando un tessuto connettivo capace di superare l’indifferenza. Spazi empatici e solidali, che negli anni sono stati coltivati, grazie anche all’investimento in progetti sociali, e che proprio in questi giorni stanno offrendo piattaforme capaci di connettere e intervenire. Ascolto le storie di numerosi volontari ed operatori di diverse generazioni che stanno affrontando l’individualismo mettendo in gioco il loro tempo per attività di solidarietà. Mi lascio sorprendere da relazioni di vicinato capaci di alleviare lo sconforto attraverso forme di reciprocità, giochi e iniziative a distanza e tra balconi.
Oggi abbiamo l’opportunità di tenere traccia di questi movimenti vitali. In futuro, la responsabilità di dar loro voce, rimetterli in circolo e farli risuonare collettivamente, allestendo contesti capaci di accoglierli e rispettarli. Sarà un percorso lungo, colmo di frammenti, molti dei quali non facili da ricucire nell’immediato. Il tempo diventerà protagonista e come operatori potremo diventare accompagnatori di questo viaggio nella misura in cui sapremo dialogare con esso, non facendoci travolgere dall’ansia di dominarlo e di ricercare risposte immediate. Avremo però il compito di diventare suoi alleati, sapendolo valorizzare, dirigendolo e trasformandolo, attraverso spazi di riflessione, di ascolto e di fiducia, animati dal desiderio di ricomporre ancor prima di ricostruire, per poter successivamente consegnare il testimone all’arte di ridisegnare il futuro. Non sarà un ripartire “da dove eravamo rimasti”, ma una storia completamente nuova. Ciò comporterà rivedere i nostri programmi e i nostri progetti, saperli anche parzialmente accantonare o trasformare. E con essi la nostra presunzione di poter controllare ogni cosa. Solo così le comunità potranno trarre beneficio da spazi in cui rispecchiarsi, ascoltarsi, facendo tesoro dell’invisibile e chiamando ogni cosa per nome. In questo modo sarà possibile mettere in moto quel potere trasformativo delle narrazioni sociali, che come evocato anche dallo psicologo Julian Rappaport, può alimentare e sedimentare l’immaginario collettivo, aprendo le porte ad un cambiamento.
Tra distanza e vicinanza: ispirarsi alla saggezza della volpe
“In quel momento apparve la volpe”. Giunto sull’ennesimo asteroide il piccolo principe compie uno degli incontri più preziosi. Antoine de Saint-Exupéry regala all’umanità un frammento dinamico e impegnativo per ricordarci il potere di ciò che apparentemente è invisibile e impalpabile: la capacità di creare legami. Abbiamo bisogno di scommettere sulla capacità di “addomesticarci”, di avvicinarci gradualmente. Ciò che sorprende nel piccolo principe non è tanto la capacità di avvicinarsi fisicamente, quanto la sua tenacia, la ricorsività e il desiderio che lo anima. Approssimarsi è una danza: ci si avvicina e ci si allontana.
In questi giorni stiamo vivendo fortemente l’antinomia vicinanza-lontananza, spesso come un disequilibrio che ci fa sentire inadeguati e inesperti. Diversi di noi stanno sperimentando l’eccesso di vicinanza e il desiderio di recuperare spazi. All’opposto c’è chi vive con nostalgia il contatto interrotto. Abitiamo spesso agli antipodi, faticando a trovare un equilibrio appagante. In ogni caso abbiamo un’occasione importante per poterci addomesticare, condividendo parti importanti di noi, sentimenti, emozioni, pensieri. Possiamo ritornare ad apprezzare le piccole cose, l’invisibile e il semplice. Piccoli gesti di umanità che ci permettono di riallacciare i rapporti imprimendo alla giornata “il colore del grano”. Le evocative parole della volpe sono un’espressione di vicinanza consolidata e matura, capace di far sentire viva la presenza dell’altro, seppur fisicamente distante nello spazio e nel tempo. Per salvare il mondo in questi giorni servono parole, anche poche, quelle che però sanno di cura e interesse.
Pensare, formare, generare: mantenere vivo il desiderio del mare “ampio ed infinito”
Ci troviamo immersi in un energico vortice di esperienze e attività, abitato anche da numerosi pensieri di coloro che stanno cercando di dare forma e vita ad un periodo estraneo alla precedente esperienza. La vivacità dei contributi che anima il web spesso ci disorienta, altre volte ci illumina. In un periodo di emergenza lo spazio del fare può trarre beneficio dal desiderio di allenare uno spazio simbolico e dialogico in cui prendere atto dell’esistente, capace di elevarci e di trasformarci. Mentre mettiamo in circolo pensieri e sensazioni qualcosa cambia, a partire da noi stessi. Non possiamo esimerci dal pensare, dal proporre momenti di riscoperta e di consapevolezza per proteggere il presente e mettere in garanzia il futuro.
È noto in letteratura come i periodi di incertezza generino maggior adesione a risposte conformiste. Lo storico Harari[3] e la giornalista Anne Applebaum[4] in alcuni recenti contributi pubblicati dalla rivista “Internazionale”, mettono entrambi in guardia sulle possibili inquietanti evoluzioni di scelte prese in periodi come quello che stiamo vivendo. Alcune misure assunte oggi per affrontare la crisi possono rischiare di diventare stabili, motivando pertanto l’impellenza di una scelta tra sorveglianza totalitaria e responsabilizzazione dei cittadini, tra isolamento nazionalista e solidarietà globale. Abbiamo quindi necessità di mantenere viva questa riflessione, specialmente in questi momenti, non solo per noi stessi, ma per l’intera società. È urgente un pensiero collettivo che non sgretoli la fiducia tra le persone e che eviti che le relazioni di comunità non si sostituiscano a mere soluzioni di ordinanza per gestire situazioni di emergenza. Dobbiamo seppur con fatica elaborare proposte più complesse e articolate, capaci di far leva sulla responsabilità personale e collettiva, sulla solidarietà e reciprocità delle persone e non solo sulla repressione di comportamenti e sulla diffusione ossessiva della sua notizia. Come sovente avviene nel lavoro con le comunità non disponiamo di risposte preconfezionate, ma occorre co-generarle in corso d’opera, mettendo in conto che probabilmente non tutte andranno a buon fine, ma saranno lodevoli sforzi per proteggere la dignità degli uomini. Occorre coltivare insieme contesti di vita che diano forma ai comportamenti umani, alimentando toni e azioni che agiscano sulla promozione dei legami e della fiducia nelle relazioni; non potremo così accontentarci di messaggi che trasformino l’altro in minaccia collettiva, nella ricerca estenuante del colpevole, giustificata e mascherata sovente da una doverosa azione di tutela sociale. Alternative che, prima di essere agite, devono però essere pensate e soprattutto sentite. Il contesto che coltiveremo ora determinerà la narrazione di domani.
Citando nuovamente de Saint-Exupéry, “se vuoi costruire una barca non radunare gli uomini solo per dare ordini e far raccogliere la legna. Devi insegnare loro, invece, la nostalgia del mare ampio e infinito.”
Nello scorrere di questi giorni queste parole mi richiamano l’opportunità di non abbandonare quegli spazi di nutrimento reciproco, di formazione, capaci non solo di rimettere in moto il pensiero e la passione, ma anche di rivitalizzare ciò che può mantenere vivi diritti e opportunità per le persone e le comunità, e soprattutto non soffocare la speranza e l’umanità.
[1] https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/03/25/news/virus_e_arrivato_il_momento_dell_audacia-252319612/
[2] Wolff T., The Power of Collaborative Solutions: Six Principles and Effective Tools for Building Healthy Communities, Jossey-Bass, 2010
[3] Harari, Y.N., Il mondo dopo il virus, Internazionale, 1315:2020
[4] https://www.internazionale.it/opinione/anne-applebaum/2020/03/28/epidemie-governi-autoritari
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