Scienze

Non è la ‘malasorte’ a guidare il Covid19

2 Giugno 2020

E’ strana questa pandemia, che insiste su territori e ne risparmia altri, che pare prendere in giro Paesi appartenenti alle stesse aree geografiche, mettendone in ginocchio alcuni e restando indifferente ai loro vicini di casa. E’ talmente strano questo Covid da far aleggiare, tra le tante (troppe) analisi e tra i tanti (troppi) criteri di valutazione della sua onda anomala, persino il tema della ‘sfortuna’, preso e ripreso da diverse testate giornalistiche, peraltro.

La ‘sfortuna’. E quale sarebbe la sfortuna?

Un capitale umano penalizzato dai corsi e ricorsi della Storia, piegato nelle sue diseguaglianze, messo in ginocchio dalla mancanza di opportunità, reso inerme dall’assenza di prospettive di lungo periodo, imbrigliato in politiche costantemente emergenziali può definirsi ‘sfortunato’ in questa pandemia?

In Indonesia si muore di Covid. In Thailandia si contiene il Covid. In Malesia lo si argina decisamente meglio. Queste sono tre diverse narrazioni provenienti dal Sud Est Asiatico, da tre Paesi apparentemente simili per clima e densità di popolazione. Narrazioni che guardano al problema Covid da tre modi completamente differenti di agire sociale. A partire dalle tre confessioni religiose dominanti, ovvero rispettivamente Induismo, Buddhismo e Islam, connesse saldamente al potere governativo che opera sui tre territori e che delle confessioni religiose ne fa lo strumento spesso utile per applicare la politica del pugno duro.

Dunque, tre territori che includono un capitale umano decisamente differente, per nulla esposto in maniera identica, nonostante il clima sia caldoumido in tutti e tre gli Stati asiatici e la concentrazione delle persone sia notevole nelle grandi metropoli che le caratterizzano. Li porto come esempio perché le generalizzazioni, di questi tempi, si sprecano, e guardano purtroppo oltre le singole cornici di contesto da cui, invece, tutto, a voler prestare attenzione, emerge in maniera incontrollata nella drammaticità del reale.

Cosa sta accadendo veramente? Sarà la sfortuna a colpire di più gli induisti indonesiani, di meno i buddhisti thailandesi e quasi per nulla i musulmani malesi?

Quella domanda (Cosa sta accadendo?) la voglio però rivolgere a ‘noi’.

Cosa accade nel momento in cui chi è deputato a narrare la Storia nel mentre in cui la sta vivendo (esercizio tutt’altro che semplice e semplicistico, ci mancherebbe) decide di tenere fuori dalla storia l’elemento cardine della storia stessa, ossia l’umanità? Intendo per umanità le diseguaglianze con le quali il capitale umano si è trovato a fare i conti rispetto ad un virus che è, invece, decisamente parte del proprio ecosistema e ben situato nei luoghi in cui le società abitano e si definiscono.

E’ accaduto che, nell’epoca del Covid 19, quel ‘pensare globale’ a cui ci siamo aggrappati negli ultimi decenni è venuto meno, per paradosso, proprio quando tutto ci è sembrato globale.

E’ nel mezzo della pandemia che ci scopriamo più ciechi rispetto alle motivazioni che articolano i vari Paesi colpiti. E ci affidiamo alla ‘sfortuna’, reiterando quel vecchio errore che si perde nella notte del tempi, laddove si finge che la malasorte non sia ciò che in realtà è: sempre sinonimo di povertà.

Accade quando il senso di una profonda responsabilità antropica nei confronti della pandemia non viene avvertito davvero come globale. Ed allo stesso tempo anche il concetto di glocale (quel pensare globale per agire localmente) naufraga miserabilmente, facendo emergere tutte le debolezze di un sistema che non ha gli strumenti utili né a pensarsi in maniera mondiale, né tantomeno a trovare soluzioni locali. Perché lo sforzo di condurre la battaglia in maniera globale sarebbe culturale, però mancano gli strumenti per farlo; mentre nei singoli Paesi colpiti il sistema interconnesso (sanitario, economico, di welfare, scolastico, etc) collassa senza poter usufruire dell’ombrello della tanta declamata globalizzazione. Il cane si gira, e si morde la coda.

Eppure la pandemia è un ‘fatto sociale totale’, proprio un fatto culturale che agisce in maniera olistica, ed è proprio la cartina tornasole di questa verità. Ecco perché le diseguaglianze presenti in maniera articolata e differente su territori apparentemente uguali in termini di clima e densità della popolazione ma non di opportunità, emergono lasciando scoperto lo scheletro nudo di società che uguali non sono mai state.

Ma noi, nonostante ciò, preferiamo non vedere il re quando questo appare nella sua nudità.

C’è poi un altro fattore di cecità, e si riferisce proprio alla maniera in cui narriamo la presenza del virus tra gli uomini. Commettendo di nuovo l’imprudenza di osservarlo come fosse un elemento estraneo al nostro sistema. Mentre il virus non è arrivato da Marte, entrando come un invasore nelle nostre case. E’ frutto delle nostre scelte irresponsabili, con le quali abbiamo agito sul pianeta, restando al contempo ignoranti e indifferenti circa le connessioni che legano inesorabilmente le decisioni prese in un emisfero con le conseguenze che si verificheranno nell’altro.

Eppure, tra le lezioni da imparare nel corso della pandemia non può non esserci mai quella di imparare a convivere con i virus, i quali da sempre sono i nostri compagni (amici o nemici a seconda anche delle opportunità che l’umanità consegna loro) di viaggio sulla Terra.

Ecco anche perché è ora di riconquistare, insieme agli spazi della libertà, soprattutto una cultura dell’agire consapevole, che sia mediatrice tra la messa in sicurezza della salute pubblica e la costruzione di un nuovo pensiero situato in un ecosistema mondiale in cui l’Uomo non ha mai abitato in beata solitudine, ma è sempre stato parte di un tutto che non si può né frenare con il negazionismo, né tenere separato a lungo da un contesto che va ripensato in maniera dinamica, non serrato in recinti emergenziali.

Per chi, come me, riflette da anni sui contesti di emergenza, parlare di ‘occasione delle catastrofi’ è sempre urticante, ma c’è occasione e occasione, e come ha detto recentemente anche Papa Francesco, non cogliere l‘occasione di appianare le diseguaglianze del capitale umano presente sul pianeta è uno spreco totale.

Aggiungo: pena la costruzione di recinti, aiutati anche da narrazioni altisonanti, in cui isolare le diseguaglianze sociali come ‘casi sfortunati’ resta la soluzione più facile. Senza rendersi conto che la sfortuna, semmai, è quella di costringere noi stessi a scelte troppo spesso veloci, troppo spesso di comodo, volte a definire gli Ultimi come sfortunati e l’Uomo come centro dell’Universo.

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