Scienze

Neurodialogo con l’economia

16 Febbraio 2015

Scritto insieme a Claudia Civai,

 

Lo sviluppo delle neuroscienze, insieme alla dinamica esponenziale con cui crescono le capacità computazionali e la datizzazione delle nostre vite, ha rappresentato e rappresenta per la ricerca accademica un’enorme opportunità, come dimostra il crescente numero di pubblicazioni a livello mondiale nel ramo. Come spesso accade con le innovazioni dirompenti, tuttavia, una fase di hype si prende rabbiosamente il centro del dibattito.

È una fase stimolante e utile, perché porta all’attenzione del grande pubblico gli studi che vengono fatti alla frontiera e comincia ad alfabetizzare le persone rispetto ad un linguaggio e a un lessico per lo più sconosciuto. È però anche una fase pericolosa e da attraversare con prudenza, spesso perché molte o troppe persone cominciano, sull’onda dell’entusiasmo e della moda passeggera, ad usare un prefisso (in questo caso neuro) come scudo spaziale che protegge uno studio dal rigore meglio di quello elettromagnetico usato da Mazinga.

Ecco dunque nascere il neuro-marketing, la neuro-filosofia, la neuro-economia, con il rischio appunto di mettere un prefisso davanti ai buoi invece di favorire l’avanzamento della ricerca.

Intendiamoci, la contaminazione e la multidisciplinarietà rappresentano non solo il futuro, ma anche il presente della comunità scientifica che produce ricerca di qualità. Tuttavia, due discipline che dialogano presuppongono l’esistenza di due linguaggi diversi e di due metodologie diverse. L’integrazione è dunque fondamentale per l’avanzamento della conoscenza, ma deve essere integrazione vera, di persone e di idee, piuttosto che una parola sulla bocca di tutti che finisce con il nascondere realtà distinte che “si appropriano” l’una della metodologia dell’altra, con poca arte e con poca parte, rendendosi così vulnerabili e soprattutto foriere di ricerca BBB- (a ridosso del junk, per capirci).

La ricerca è studio e passione. La ricerca è un succedersi continuo di fallimenti dove gli avanzamenti costituiscono la splendida eccezione, più che la norma. La ricerca è un apostrofo rosa tra le parole “‘Azzo, non mi viene niente”.

Ogni metodologia è utile, se nessuna metodologia prende il sopravvento e la smette di interrogare se stessa. Se si trasforma in litania o mantra dell’infallibilità, infatti, rischia di sforare nell’ambito di competenza della teologia.

Ciò riguarda, tra l’altro, anche le tecniche usate dalle neuroscienze. Nel dialogo interdisciplinare, infatti, ci si dimentica troppo spesso che esse non si riducono alle neuro immagini e alla risonanza magnetica: esistono altre tecniche che permettono non di osservare, ma addirittura di modificare l’attività cerebrale, e di conseguenza il comportamento, permettendo indagini che cerchino rapporti di causalità tra fenomeni.

Riuscire a mappare il cervello in vivo con immagini sempre più precise e potere, allo stesso tempo, effettuare test statistici robusti sulle immagini stesse offre l’opportunità, in prospettiva, di fondare una scienza della decisione e dell’analisi del comportamento con basi neurologiche empiriche incontestabili.

Ma è una prospettiva, appunto, un ideale approdo che richiede ancora molti passaggi. E molta prudenza. E che trascura un fatto fondamentale: la ricchezza dell’approccio neuro scientifico è anche ricchezza di metodologie di analisi. Se vogliamo, vale un po’ lo stesso rischio che si corre con l’econometria quando la si trasforma in un talismano scaccia-crisi per gli studi economici, o coi Big Data interpretati come mantra in grado di rispondere a tutti i quesiti con un algoritmo di calcolo. Ogni strumento è utile e nessuno è auto-sufficiente, perché ciò che conta davvero è avere una domanda di ricerca e una metodologia chiara per provare a rispondervi.

Come ogni scienza giovane, dunque, serve calma e sangue freddo, soprattutto laddove l’approccio neuro-scientifico è utilizzato da altre discipline, quali l’economia. E la prudenza è suggerita dagli stessi neuro-scienziati.

Serva come caveat, da tenere sempre in mente, un articolo scientifico molto famoso all’interno della comunità accademica che fa studi appunto attraverso l’fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging), la risonanza magnetica funzionale. L’articolo è stato pubblicato da una rivista che ha un titolo molto divertente: Journal of Serendipitous and Unexpected Results. La questione però è estremamente seria. È un lavoro ormai vecchio di 5 anni, che avvertiva rispetto al rischio, nell’utilizzo di questa tecnologia, di incorrere con una probabilità non trascurabile in quello che viene chiamato errore del false positive (falso positivo), commesso da  chi afferma l’esistenza di una relazione statistica tra due variabili quando, invece, questa relazione non esiste.

Craig Bennet, dell’Università di California (Santa Barbara), autore dello studio, effettuò l’analisi su un cervello che veniva sottoposto a scansione e che mostrava un’attività neuronale molto forte. Il cervello era quello di un bel salmone lungo diciotto once e del peso di tre libbre e mezzo.

Il piccolo ma non trascurabile particolare è che il salmone era morto.

L’intento di Bennet era proprio quello di avvisare i ricercatori della comunità accademica sulla possibilità di incorrere facilmente in madornali cantonate. Nulla di male: lo stesso autore ricorda pure che esistono molteplici tecniche statistiche, implementate nei software di analisi in maniera sempre più massiccia, adatte a correggere l’errore e chi studia e fa ricerca in ambito neuroscientifico ha ampiamente digerito il salmone indigesto.

Il fatto, tuttavia, rappresenta ancora una volta un monito: la ricerca accademica va fatta con rigore e metodo. Rispettata questa banale clausola, lo strumento di indagine diventa tutto sommato una questione di secondaria importanza.

Bennet mostra dei dati inquietanti nell’introduzione del suo articolo: tra gli articoli pubblicati nel 2008 all’interno delle principali riviste neuro-scientifiche, il 26% di quelli usciti su NeuroImage commetteva lo stesso errore di metodologia volutamente simulato con il cervello del salmone; la percentuale saliva a 32,5% per Cerebral Cortex e al 40% per Social Cognitive and Affective Neuroscience.

Ora, veniamo all’economia. Se la ricerca neuro-scientifica è ancora agli albori e avanza con prudenza sulla stimolante strada del progresso, la disciplina economica dovrebbe esercitare il doppio di questa  prudenza, non fosse altro per una mera ragione pratica che introduce l’ultimo ragionamento di questo articolo, che fa nostre alcune osservazioni di Ariel Rubinstein, dell’Università di Tel Aviv, uno dei padri della teoria dei giochi comportamentale. Rubinstein mostra prudenza nei confronti delle ricerche neuro-scientifiche in ambito economico che usino l’fMRI per una questione non banale: il costo di tali ricerche.

A parte la necessità di disporre di una macchina per la risonanza magnetica funzionale (il che, già, per un dipartimento di Economia non integrato in un polo ospedaliero, rappresenterebbe un investimento enorme), sottoporre un cervello umano a scansione per un’ora costa 600 dollari circa. Gli studi neuro-scientifici si basano su un campione di osservazioni spesso non superiore alle 50 unità (per ovvie ragioni), il che esclude ogni rappresentatività dello stesso. Ora, Rubinstein dice: quando uno studio neuro-economico che usa l’fMRI è fatto bene, il più delle volte riesce a replicare con una metodologia innovativa risultati già noti all’economia sperimentale, le cui ricerche, pur onerose, costano molto meno (20-30 dollari a soggetto reclutato).

Quando è fatto male, però, rischia di prendere, in parole potabili, una cantonata clamorosa.

I neuroscienziati, dal canto loro, fanno notare come una delle più grosse cantonate delle discipline che vogliono usare le neuroscienze ma non sanno come, è appunto considerare le neuroimmagini come l’unica metodologia degna di nota, quando in realtà le neuroscienze sono nate senza neuroimmagini!

Ci sono molte metodologie (l’elettroencefalogramma, la stimolazione transcranica a corrente diretta, lo studio del comportamento dei pazienti cerebrolesi, tanto per citarne qualcuna) molto più economiche, e che a volte possono dare delle risposte decisamente più adeguate alle domande degli economisti.

Su una cosa siamo sicuramente tutti d’accordo, ovvero sul fatto che una metodologia non costituisce, dunque, di per sè, una bacchetta magica.

O, forse, sì, ma ricordando proprio il mondo di Harry Potter, una bacchetta magica, da sola, serve a poco se è usata dal mago sbagliato: serve che il mago, infatti, la sappia usare e la padroneggi.

Accio Nature, da solo, non basta per ottenere una pubblicazione su un top journal.

 

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