Scienze
Maria Teresa e la fatica di essere donne con i fascisti, e con gli antifascisti
«Non ero ambiziosa, ma soffrivo a svolgere un ruolo così marginale rispetto agli anni della clandestinità». É con queste parole che Maria Teresa Regard, la partigiana dei Gruppi d’azione patriottica che ha partecipato alla Resistenza di Roma con tante azioni militari, ricorda l’inizio della militanza nel Partito comunista italiano.
Come molte altre migliaia di donne della sua generazione, nate e cresciute negli anni del fascismo, l’ex partigiana ha davvero creduto che l’insurrezione armata del 1945 segnasse l’inizio di un percorso di trasformazione della società; di un mutamento radicale anche nei rapporti tra i sessi, sia nella sfera pubblica che nella vita privata.
Prendere parte alla Resistenza ha assunto i tratti di una sfida ai pregiudizi della società, perché le donne che hanno scelto di combattere (con o senz’armi) non lo hanno fatto soltanto per abbattere l’occupante tedesco e le milizie fasciste della Repubblica sociale italiana.
Per il mondo femminile, la scelta antifascista si è trasformata in una «guerra privata», combattuta per l’emancipazione dalle discriminazioni e da ogni forma di subalternità sociale e culturale. La Resistenza ha segnato per le donne una vera e propria rivolta, anzitutto contro quella cultura di guerra per secoli le aveva condannate ad essere «bottino» e preda degli eserciti (occupanti o liberatori); ma è stata anche uno strappo definitivo con la società tradizionale, la liberazione dall’educazione fascista improntata al rispetto delle gerarchie consolidate, fuori e dentro le mura domestiche, che aveva ridotto la donna ad essere solo e soltanto «la pietra fondamentale della casa, la sposa e la madre esemplare».
Nel biennio 1943-1945 ci si è, in sostanza, avviati verso la trasgressione dai modelli comuni di donna, col rifiuto della mentalità patriarcale: «Le donne rivendicano il diritto di disporre della loro sorte. Chi dice che il posto della donna è nella casa tradisce e mente. Le case crollano e il fatto che la donna sia l’angelo della casa non lo può impedire».
Sono queste, le motivazioni ideali di una scelta orgogliosa, per nulla scontata e mai rinnegata, enunciate dai Gruppi di difesa della donna proprio nei giorni della guerra di liberazione. Soggetti in azione e agenti di cambiamento, le partigiane si sono ribellate anche alla subalternità di genere, a quelle teorie socio-biologiche che nell’essere femminile avevano da sempre visto uno stato di minorità sessuale o d’inadeguatezza fisica al lavoro.
Anche per questo, in quella primavera del 1945, la Liberazione si è accompagnata a un’incontenibile voglia di rivoluzionare tutto con «spavalda allegria»; a un’ansia di rinnovamento intesa come «senso della vita che [avrebbe potuto] realmente ricominciare da zero».
L’impegno politico successivo alla Liberazione s’intraprende, dunque, anche in continuità con la volontà di sfidare il mondo per mezzo di atti di disobbedienza radicale. Essere libere significa accedere ai piú alti gradi culturali e professionali, senza pressioni o intimidazioni, godere di adeguate politiche di previdenza sociale a tutela della maternità; significa rendere l’assistenza all’infanzia libera e gratuita.
Lo stesso inserimento nella vita associativa femminile del dopoguerra – partitica, sindacale o di genere – rappresenta per molte il naturale prolungamento di una militanza politica che si è interpretata come irreversibile proprio a partire dagli anni di gioventù. Le donne incominciano a combattere tutte le discriminazioni di cui sono oggetto: nella scuola, nelle professioni, nei rapporti di genere. Si avverte, in particolare, la necessità di una modernizzazione del paese per l’adeguamento della società italiana ai tempi.
I desideri di emancipazione sono però condannati a non realizzarsi pienamente. La Resistenza e l’attività politica nella guerra partigiana hanno certamente sconvolto i tradizionali spazi simbolici di divisione sessuale dei ruoli, ma i cambiamenti sono stati di breve durata perché la Liberazione non ha portato di per sé una scontata e automatica modernizzazione dei costumi. Con l’avvento della Repubblica la battaglia delle associazioni femminili è, per questo, orientata anzitutto verso «l’elevazione culturale della donna» con l’obiettivo di porre fine all’«analfabetismo sociale» e alle pressioni o intimidazioni della cultura maschile che per secoli hanno afflitto le donne con l’«analfabetismo psicologico».
Il pregiudizio e l’autorità maschile continuano, anche dopo la Liberazione e nonostante la conquista del diritto di voto nel 1946, ad annullare l’espressione dell’individualità femminile. Si tratta di una vera e propria coercizione per la quale è inimmaginabile che una donna possa affermare se stessa e la propria volontà, ad esempio esprimendo con il voto una tendenza politica in contrasto con quella dell’uomo di casa, marito, fratello o padre che sia.
La conquista dei diritti politici non si trasforma, poi, in una parità nei diritti civili e di famiglia. La divisione sessuale del lavoro resta invariata, il predominio maschile nella società, nella politica e persino nei linguaggi assume un significato ben chiaro: per le donne il 1945 ha segnato una rivoluzione rimasta a metà.
Come ricorda Ada Alessandrini, la prima contestazione viene rivolta contro il pregiudizio che considera la «mente femminile» inferiore e incompatibile con la cultura scientifica. Un vecchio preconcetto, figlio del più squallido «opportunismo paternalistico», che non si riversa solamente nell’istruzione ma in tutti i campi della vita sociale, affettiva e lavorativa. A lungo, infatti, le donne sono state relegate al ruolo di «segretarie e dattilografe» mentre nessuna è compresa tra i «quadri dirigenti della burocrazia italiana» tranne «qualche capo di divisione». E se per molti anni ancora è vietato alle donne «l’accesso alla magistratura e alla diplomazia», il lavoro manuale «nelle officine e nei campi» vede «la donna fa[re] spesso lavori più gravosi e più delicati», con «un salario inferiore a quello dell’uomo».
Questo stato d’animo di insoddisfazione è ben descritto ancora una volta dalla Regard al momento di ricordare il giorno in cui si vede costretta a licenziarsi dal posto di lavoro proprio per accondiscendere alla volontà del marito, Franco Calamandrei, «infastidito dai miei risvegli di prima mattina per rispettare l’orario d’ufficio».
Maria Teresa spera di poter trovare solidarietà nelle altre compagne di partito, che come lei hanno iniziato a militare nel Pci. Tra il 1946 e il 1948 il partito comunista è divenuto per lei (come del resto per altri compagni di lotta partigiana) una palestra di socializzazione politica; un luogo di confronto continuo, di creatività e anche d’investimento sui giovani. Non si tratta di un partito militarizzato, monolitico e intransigente fatto di gente seriosa, occhiuta, che guarda con sospetto. Nel Pci (come del resto accade anche in altri partiti) vi è infatti una grande vivacità di discussioni, di ingressi di giovani che hanno intenzione di partecipare con impegno ed entusiasmo alla rinascita della vita politica del paese.
É allora facile immaginare lo stupore della Regard quando proprio Egle Gualdi, responsabile della federazione romana del Pci, le consiglia di rinunciare alla sua indipendenza economica e di licenziarsi dal posto di lavoro: «mi disse di seguire il volere di mio marito, perché un matrimonio felice era più importante dei soldi che guadagnavo». All’interno dello stesso Pci, non sono pochi del resto i militanti che, come Teresa Noce, segretario dei tessili e membro della direzione (oltre che moglie di Luigi Longo), sostengono che il divorzio non sia un tema di interesse per le lavoratrici.
Il partito sottopone poi i propri militanti a rigorosissimi controlli, che pesano fortemente sulla vita dei singoli, perché si è assoggettati a un rigido e inaccettabile esame su ogni aspetto della vita privata (compresi i costumi sessuali). E, ancora una volta, sono le vicende della Regard a offrire un interessante quadro di riferimento storico. Nei primi anni Cinquanta l’ex partigiana s’innamora di un funzionario di partito, studente universitario a Milano, molto più giovane di lei, conosciuto durante l’occupazione del palazzo della prefettura.
Dopo un breve momento di incertezza, la donna vive una passione amorosa di cui non può più fare a meno. E si ritrova improvvisamente ad essere divisa tra due uomini: suo marito Franco, l’amore di gioventù, suo compagno di lotta nei duri giorni dell’occupazione tedesca, padre di sua figlia Silvia, e “I.”. Un giovane dal «viso magro e pallido [che] aveva tutti i tratti armoniosi»; il simbolo di «quell’amore che, con disperata determinazione, avevo tentato di strapparmi dalla mente e dal cuore […] una delle cose più belle che la vita mi aveva regalato».
La donna non ha però sufficientemente considerato lo scandalo che il suo comportamento può aver generato tra i militanti del partito. Una mattina viene infatti convocata da Giuseppe Alberganti, membro del Comitato centrale del Pci, al quale qualcuno ha riferito della sua relazione clandestina. Con tono duro mi comunicò che una compagna gli aveva scritto una lettera, informandolo che avevo una relazione con un compagno che lavorava in Federazione. La compagna riteneva che una donna sposata che teneva un contegno così scandaloso non potesse dirigere una commissione di lavoro del partito […]. Come un padrone che comunica a un proprio dipendente il licenziamento in tronco, Alberganti mi ordinò di andarmene immediatamente, e di non ripresentarmi al lavoro l’indomani.
Sono dunque le donne a scontare per prime i limiti della cultura e della mentalità del paese in cui si ritrovano a vivere. Molti anni più tardi è la stessa Capponi a ritornare sul tema, in qualità di componente della V commissione Difesa alla Camera dei deputati nella VI legislatura (1° luglio 1953-11 giugno 1958).
Richiamandosi ai ritardi del testo costituzionale, l’ex partigiana ricorda come, nonostante i principi generali profondamente democratici e l’«orientamento egualitario», la Costituzione non si sia mostrata capace di «rispecchiare la complessità della condizione femminile, che oggi articola le sue rivendicazioni oscillando tra i due poli della tutela e della parità». Una posizione, questa, a dir poco critica, dal momento che il concetto stesso di «”tutela” presuppone una debolezza, dunque una differenza».
Certamente la battaglia parlamentare per l’assistenza alla maternità e all’infanzia, permette la conquista di alcuni diritti; e ben lo dimostra, ad esempio, l’approvazione del disegno di legge, presentato il 2 luglio 1948, sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri intesa, non solo come assistenza giuridica per il divieto di licenziamento delle neo mamme ma anche come «tutela igienica, economica e sanitaria», specie per le operaie d’industria maggiormente sottoposte, rispetto alle contadine e alle casalinghe, ad un lavoro nocivo.
Le possibilità di ottenere un collocamento al lavoro, peggiorano tuttavia nel caso delle cosiddette “madri nubili”, donne sole, senza un marito né un compagno, che hanno avuto “figli illegittimi”, perché nati fuori dal matrimonio.
Nel loro caso le norme Costituzionali sui rapporti etico sociali e il diritto di famiglia, sembrano non essere mai state approvate. Il testo costituzionale ha certamente riconosciuto la piena equiparazione tra figli legittimi e figli naturali, definendo questi ultimi come figli di genitori non sposati tra loro. Per entrambe le categorie è sancito il diritto a ricevere assistenza da parte dei genitori, dal momento che i figli devono essere mantenuti, istruiti ed educati (come previsto dall’art. 30 della Costituzione). In Italia continua però ad essere applicato il codice civile del 1942, di fatto rimasto in vigore fino all’approvazione della legge del 19 maggio 1975, n. 151, sulla riforma del diritto di famiglia. Sarà proprio questa legge a permettere alle cosiddette «madri nubili», di ricercare la paternità del bambino e quindi di mettere i padri dinnanzi alle loro responsabilità.
A battersi nel dopoguerra per garantire una famiglia e una tutela giuridica ai «figli di nessuno» è del resto l’Unione donne italiane. La questione è infatti intimamente connessa alla condizione femminile in Italia: l’assistenza ai bambini illegittimi non si può esaurire nella disponibilità di ricoveri nei brefotrofi e di sussidi, perché il vero punto è mettere le donne nella condizione di poter sfamare i propri figli e quindi, sul piano lavorativo-occupazionale, di poter godere della parità salariale e di altri diritti, come la tutela del lavoro domestico, il riconoscimento della pensione alle casalinghe, fino alle strutture per la tutela dei figli che permettano alle madri di andare a lavorare.
Contro i pregiudizi di una società che le avrebbe a lungo considerate «pazze» o «stravaganti», le donne continueranno a impegnarsi in un’intensa partecipazione alla vita politica e sindacale del paese anzitutto per non assuefarsi a un mondo gerarchico, autoritario e repressivo.
Sarà questa la strada per la conquista dei diritti civili (e di civiltà) come il divorzio o il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza e quindi a una maternità consapevole. Anche tra le ex partigiane ci saranno donne costrette a scappare di casa perché vittime di abusi e violenze; donne che sceglieranno di fuggire da mariti violenti e di sfidare il mondo denunciando quel che accade tra le mura domestiche.
Altre saranno mal giudicate per aver vissuto con un uomo senza essere sposate, per aver cambiato spesso fidanzato, per aver avuto bambini da uomini diversi, oppure per aver deciso di restare nubili e sole. Per la scelta di vivere secondo una condotta troppo emancipata e quindi fonte di scandalo.
Potrebbe sembrare un discorso lontano, ormai relegato al passato.
Ma quante donne che caparbiamente non si adeguano a passività e rassegnazione, ribellandosi ai valori tradizionali, continuano, ancora oggi, a essere condannate per la loro voglia di libertà? Per la loro incontenibile, e perciò spaventosa, espressione di un sesso «debole» stanco di soccombere?
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