Benessere
L’urgenza di misurare la felicità (e di sfuggire alla sua retorica)
È stato presentato a Roma all’università LUMSA il quarto rapporto sulla felicità, il World Happiness Report, un’iniziativa dell’ONU che annovera tra i suoi contributori economisti del calibro di Richard Layard e Jeffrey Sachs e, per il nostro paese, di Enrico Giovannini e Leonardo Becchetti.
Continua, insomma, il tentativo di portare all’attenzione del mondo della politica un approccio alla misurazione del benessere che sia multidimensionale e complesso, e che, soprattutto, vada al di là della considerazione del reddito quale unica, o principale almeno, metrica della qualità della vita.
In realtà, ormai, molti governi hanno recepito il messaggio e la considerazione del benessere come concetto multidimensionale è un risultato acquisito.
Il governo inglese ha lanciato nel 2010 un censimento della felicità con l’obiettivo di individuare le basi per il design e l’implementazione di politiche che non siano ispirate solo a un trasferimento di reddito, ma a una visione più a 360° della felicità delle persone.
Il World Happiness Report, ogni anno, ha il merito di porre con rigore metodologico l’attenzione su diverse questioni: come si misura e quali sono i problemi degli indicatori di benessere soggettivo; la geografia della felicità nel mondo, con focus sui contesti socio-culturali; quali sono le determinanti di una vita felice.
Così, dalla necessità di includere indicatori di happiness nella contabilità nazionale, perché essi misurano la qualità della vita in modo più completo di approcci che considerino reddito, salute, povertà, istruzione e buon governo separatamente, si è passati nel corso degli anni a sviluppare un ragionamento altrettanto approfondito su come la felicità si distribuisce nel mondo e come evolve nel tempo.
Quest’anno, infatti, esattamente come la politica ha posto, almeno in linea di principio, al centro dell’agenda il tema inequality, anche il rapporto dell’ONU lo ha fatto, proprio partendo da una similitudine di approccio: se gli indicatori di felicità, rispetto a quelli di reddito, offrono una panoramica più completa del benessere di una persona, anche le misurazioni di disuguaglianza della felicità consentono una visione più ampia del problema rispetto alla considerazione della mera sperequazione di risorse materiali.
Ma come viene misurata la felicità all’interno del World Happiness Report?
In più di 150 paesi, mille persone (per stato) all’anno vengono campionate e intervistate. E la domanda fondamentale utilizza la cosiddetta scala di Cantril: “Immagina una scala, dove i gradini sono numerati da 0 in fondo fino a 10, in cima. Il gradino più alto rappresenta la migliore vita possibile e quello più basso la peggiore. Su quale gradino della scala diresti di trovarti in questo momento della tua vita?”
Le classifiche dei paesi vengono dunque costruite sui punteggi medi e, come avviene spesso, la Danimarca porta a casa il primo posto, con la Svizzera e i paesi del Nord Europa a farle compagnia nei quartieri alti.
L’Italia veleggia intorno a un mediocre cinquantesimo posto e, nel corso degli ultimi dieci anni, ha visto ridursi lo score medio della felicità di 0.735 punti (nel ranking dei Paesi che peggiorano il proprio livello di felicità, l’Italia si posiziona addirittura al centodiciannovesimo posto).
Il rapporto mostra quali sono le principali componenti che si trovano sotto l’ombrello della felicità: il reddito pro-capite, social support e libertà sociale, aspettativa di vita, libertà, generosità e assenza di corruzione.
Per quanto riguarda la disuguaglianza, suona un campanello d’allarme perché, dal 2005 a oggi, è aumentata in modo significativo la sperequazione negli score medi di felicità a livello mondiale, di un ammontare pari al 5%. E anche a livello di singoli paesi, più della metà mostrano un trend crescente della disuguaglianza. Lo studio mostra come la disuguaglianza tenda a essere più bassa là dove la distribuzione del reddito è più equa e in quei paesi, in via di sviluppo, in linea con gli obiettivi ONU di sviluppo sostenibile.
Nonostante l’assoluto valore scientifico della pubblicazione presentata a Roma, una domanda rimane sul tavolo: quanto è davvero rilevante il tema della felicità nell’agenda di un policy maker?
Il dibattito sull’uso degli indicatori di benessere soggettivo si è conquistato un suo posto al sole ma va detto che non riesce a guadagnare particolare terreno e si è un po’ impaludato. E questo a dispetto del fatto che da decenni, ormai, l’economia della felicità produca e presenti i suoi risultati.
Alcuni paesi hanno lavorato per riconoscere la felicità come tema politico forte, e abbiamo già citato UK a questo proposito.
Altri, ancora, hanno introdotto veri e propri ministeri della felicità: il famoso caso del Bhutan, seguito da altri esempi come quello recente degli Emirati Arabi.
Il rapporto si chiude sottolineando una volta di più la necessità di un approccio che includa le dimensioni del benessere soggettivo, proprio per andare al di là di una mera considerazione delle politiche reddituali e di una crescita basata solo sulle risorse materiali.
Tutto sacrosanto, per carità, e suffragato da un’evidenza empirica robusta.
Il però è tuttavia d’obbligo.
Non si rischi, infatti, di cadere, soprattutto in tempi di recessione globale, in una retorica opposta a quella che considera il PIL come unico metro dello sviluppo, perché l’errore sarebbe grave. Gli indicatori di felicità sono importanti e, infatti, ottengono sempre maggiore spazio all’interno delle politiche di governi e istituzioni.
Essi, tuttavia, sono solo uno strumento nelle mani di chi prende le decisioni, da aggiungere agli altri e da combinare con le altre metriche.
La Danimarca è il paese più felice del mondo e conosciamo tutti i benefici dello stato sociale scandinavo e del suo modello redistributivo. Questo è un fatto incontestabile. Se pensiamo al principe Amleto, la sua storia è proprio la dimostrazione che non basta essere ricchi, belli e in salute per avere una vita felice. Tuttavia, il nuovo monarca Fortebraccio non avrebbe potuto organizzargli i funerali sontuosi che gli accordò, senza il denaro necessario a pagare le spese.
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