Cibo
Dolce, salato, amaro, acido… e umami: conoscete il quinto gusto?
È un po’ il contrario dell’Araba fenice: «che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa». In questo caso si sa dove si trovi, ma nessuno sa di cosa si tratti: alzi la mano chi ha mai sentito parlare di umami. Parola talmente sconosciuta in Italia che il correttore del computer la dà come sbagliata. Invece si tratta del quinto gusto e quindi sarà bene cominciare a familiarizzarsi un po’.
Noi siamo abituati a ragionare su quattro sapori base: dolce, salato, amaro, acido. Ma non è sempre stato così. Se facessimo un salto indietro nel tempo e arrivassimo ad Aristotele, potremmo rimanere sorpresi nel constatare che i sapori riconosciuti erano otto: dolce, grasso, amaro, salato, pungente, acido, aspro, astringente. Il Medioevo, poi, ci mette del suo e ne aggiunge un nono, che più che altro è un non-sapore, ovvero l’insipido. Nel 1751 il naturalista svedese Carlo Linneo distingue dieci sapori e soltanto nel 1841 il fisiologo tedesco Adolf Fick li riconduce ai quattro che conosciamo noi oggi. E aggiungiamo pure che in genere li chiamiamo gusti, confondendo il percepito con il percepente (il gusto è il senso che ci fa percepire i sapori, così come l’olfatto è il senso che ci fa sentire gli odori).
Certo, ci è ben chiaro il sapore del dolce o dell’acido, meno quello dell’umami. Eppure lo sentiamo tutti i giorni, e se ci richiama la cucina asiatica, in realtà è sempre stato usato pure da noi. In termini scientifici è il sapore degli unici due amminoacidi che riusciamo a percepire: aspartato e glutammato. Certo, quest’ultimo si trova nel dado (che infatti è un concentrato di umami), ma il sapore umami è qualcosa di ben più complesso. È dato dal cotto a lungo e dal fermentato. Il garum dei romani (salsa di pesce fermentato) era ricca di umami, ma quella non la mangiamo più. Il pomodoro ha molto umami, e invece questo ce lo mangiamo. Quindi: avete presente quanto è buono il ragù cotto a lungo a fiamma bassa? Per forza: l’umami del pomodoro si esalta con l’umami rilasciato dalla carne cucinata per molte ore (in questo caso, il glutammato liberato dalla carne). Ovviamente anche il brodo è pieno di umami.
L’acciuga salata dà umami. Quindi le massaie pugliesi che mettono acciughe nelle orecchiette con le cime di rapa, non lo sanno, ma aggiungono umami. La bagna cauda piemontese è un concentrato di umami. Tutto il fermentato è ricchissimo di umami: il parmigiano reggiano, il prosciutto crudo e i salumi in genere. Il bambino che rosicchia la crosta di parmigiano è attratto dal suo umami, anche perché l’umami è il primo gusto con cui si viene in contatto, visto che il latte materno ne contiene in abbondanza.
E sul fatto che sia il quinto gusto non c’è dubbio alcuno, perché nel 2001 ne sono stati individuati i recettori sulla lingua. Il problema è culturale, un po’ perché non sappiamo cosa sia, un po’ perché ci sembra una cosa in arrivo dall’Asia. In effetti è stato scoperto nel 1908 da un chimico giapponese, Kikunae Ikeda, che stava studiando il dashi, la tipica zuppa giapponese di alghe e pesce che aveva, secondo lui, un sapore che non era riconducibile a nessuno dei quattro considerati di base. È stato Ikeda a stabilire che il sapore della zuppa era dovuto al glutammato, e ha deciso di chiamarlo umami, che in giapponese vuol dire «saporito».
L’umami accentua i sapori, un po’ come fa anche il sale, e si è a lungo dibattuto se fosse un semplice esaltatore di sapori o un gusto a sé stante. Il dibattito ha avuto fine quando, come detto, ne sono stati scoperti i recettori. L’umami è salutare perché conferisce sapore e quindi fa diminuire il bisogno di salare i cibi e inoltre ingenera sazietà. I giapponesi usano cominciare il pasto con una zuppa di miso (semi di soia gialla fermentati), ricca di umami, che fa sentire sazi e quindi induce a mangiare meno. Studi medici hanno stabilito che chi beve ogni giorno una zuppa è mediamente più sano di chi non la beve. D’altra parte anche in Europa e in Italia ai tempi dei nostri bisnonni si usava bere il consommé prima dei pasti, ovvero un alimento ricco di umami che induceva sazietà. L’usanza è stata abbandonata, ma forse non sarebbe male riprenderla per motivi salutistici.
Mentre ci è abbastanza chiaro come rendere i nostri piatti dolci, salati, acidi (ma già sull’amaro abbiamo qualche difficoltà: come si conferisce? Estratto di carciofo? Un po’ di vermouth?) spargere umami sugli alimenti è più problematico. Certo, si potrebbe mettere dado ovunque, ma i risultati sul piano del sapore non sono proprio eccellenti. Qualcuno ci sta provando. La gastronoma italo-britannica Laura Santtini produce il Taste 5, pasta di umami mediterraneo a base di concentrato di pomodoro; lo chef giapponese Nubu ha messo a punto il Dry Miso, ovvero una polvere di zuppa di miso essiccata; la società Ajinomoto commercializza una specie di sale umami. Oppure ce lo si può fare in casa: il trevisano Luca Fantin, chef del ristorante Bulgari di Tokio (unico locale italiano stellato Michelin in Asia), prepara il risotto al pomodoro tirandolo a cottura con brodo di pomodoro e assicura che il risultato è al di sopra di ogni aspettativa.
In ogni caso per quanto riguarda i gusti, o sapori di base, potrebbero ancora esserci sorprese: per esempio di recente (2010) sono stati trovati recettori del grasso e quindi potremmo tornare ad Aristotele che considerava il grasso come un gusto a sé stante. «Ma ne sappiamo ancora poco del metallico», spiega Gabriella Morini, biochimica, docente all’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo, «nonostante sia un gusto ben identificabile. Quando ci tagliamo e sentiamo il sapore del sangue, siamo immediatamente in grado di riconoscerlo, ma non abbiamo scoperto se ci siano o meno i recettori di questo gusto».
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