Scienze
Un libro raccoglie le voci del lavoro dagli anni ‘50 ad Amazon
Stefano Rota (a cura di), La fabbrica del soggetto. ILVA 1958- Amazon 2021. Conversazioni su organizzazione del lavoro, valori e norme, Testi e contributi di: Azahr Abbass, Rahim Abdul, Piero Acquilino, Fouad Alaoui, Pippo Bertino, Dario De Feo, Mohamad Hassan, Palash Hossain, Abdullah Khatun, Pablo Olivares, Jawal Rana, Pino Roggerone, Fernando Rojas, Stefano Rota, Simonetta Rotondo, Lucio Rouvery, Marco Veruggio, Sensibili alle foglie, 2023, 160 pp., 16 euro.
Un libro di conversazioni coi protagonisti di una lunga stagione che va dalla fabbrica degli anni ’50, quella in cui i processi industriali vedono protagonista l’operaio di mestiere, portatore di una sapienza accumulata negli anni, custodita gelosamente e tramandata di generazione in generazione, alla nascita dell’operaio massa, spesso figlio di contadini e immigrato dal sud, figlio di una nuova cultura industriale imperniata sul “processo” e non più sul “prodotto” e visto quasi con sospetto dai vecchi operai, fino all’operaio digitalizzato delle fabbriche algoritmiche di Amazon. Una storia che si svolge nel Ponente genovese, tra i quartieri di Sampierdarena, Cornigliano, Campi e Sestri ponente, dove hanno sede le tra grandi fabbriche teatro dei racconti, l’Ansaldo, le acciaierie e il cantiere navale e dove qualche anno fa Amazon ha aperto la sua prima delivery station in Liguria. Ma, pur tenendo conto delle specificità locali, il volume curato da Rota è utile per comprendere la più generale trasformazione del capitalismo italiano del dopoguerra e l’avvicendarsi delle figure, delle storie e dei corpi, direbbe il curatore, che animano la vita e le lotte sindacali nei capannoni e nelle officine a partire dal primo dopoguerra.
La storia di questi personaggi e dei loro rapporti con le proprie aziende, spesso in un quadro di cogestione in cui il sindacato e il partito si fanno portavoce delle istanze operaie e allo stesso tempo garanti dell’ordine e della disciplina interni, in cambio di un riconoscimento da parte della direzione, riflettono anche la storia di una progressiva affermazione padronale. Perché se è vero che l’Ansaldo di Campi che ci viene raccontata è una delle prime fabbriche da cui parte la vittoriosa lotta per l’inquadramento unico, è altrettanto vero che la nascita delle nuove tecnologie e la nuova filosofia manageriale che si afferma proprio in quegli anni segna un progressivo declino del mestiere come fonte di capacità negoziale del lavoratore e di potere del sindacato in fabbrica. Un declino di cui il passaggio dai collaudi delle turbine in quei capannoni del Ponente genovese, raccontatoci da Piero Acquilino in uno dei capitoli, officiati secondo un rigido cerimoniale e rigorosamente in genovese, la lingua della classe operaia locale, ai magazzini in cui domina una neolingua aziendale infarcita di parole e di slogan nella lingua del fondatore Jeff Bezos, ci fornisce una sintesi magistrale.
Così come, nel capitolo sulla siderurgia, Lucio Rouvery ci racconta di come il capo e il maestro di forno, custodi dei segreti necessari per produrre l’acciaio “a occhio” – temperature di fusione, tempi, dosaggio dei materiali ecc. – col passaggio dalla logica semiartigianale della vecchia ferriera all’acciaieria a gestione manageriale vengono progressivamente espropriati del controllo sul processo produttivo, con l’introduzione di analisi chimiche a metà e a fine colata o delle termocoppie per misurare le temperature.
Un arretramento che si misura anche nella composizione della classe operaia e dell’organizzazione del lavoro nella cantieristica. Come ci raccontano Fouad, Palash, Pablo e gli altri lavoratori intervistati da Rota, oggi le navi della Fincantieri vengono costruite quasi integralmente dagli operai delle ditte d’appalto, prevalentemente migranti maghrebini, bangladesi, sudamericani o italiani provenienti dal Meridione – spesso soggetti alla pratica illegale della “paga globale”, un tot mensile in cui sono inglobati tutti gli istituti contrattuali: ferie, permessi, tfr e mensilità aggiuntive. Resta, tuttavia, aperta la prospettiva di una presa di coscienza, dello sviluppo, cioè, di una “soggettività” operaia in grado di rimontare la china, come emerge dal racconto di Dario, il magazziniere di Amazon che davanti ai colleghi rifiuta di fare straordinario, o di Simonetta, la driver che a un certo punto diventa una militante del Si Cobas.
Il saggio è pensato come il primo atto di un lavoro di indagine a ritroso nel tempo destinato nel tempo a prolungarsi e in cui il tempo è anche ciò che consente di assumere la distanza necessaria a cogliere l’intimo significato della storia: “Il titolo, o il sottotitolo – ci spiega il curatore Stefano Rota – avrebbero dovuto includere la parola tempo, data l’importanza che ha avuto nell’elaborazione iniziale di questo progetto. Abbiamo bisogno di tempo, anche se il nostro presente sembra dirci che non ne abbiamo molto a disposizione, per riprendere il gusto della ricerca, anzi della conricerca, per fare dell’analisi storiografica una pratica genealogica di risalita delle strade della storia, come ci ha insegnato Fanon. Abbiamo bisogno di tempo per correggere la presbiopia che non ci fa vedere quello che è troppo vicino, abbiamo bisogno di tempo per rielaborare concetti, tradurre nomi che oggi, a differenza del passato, sembra non funzionino più per interpretare la nostra contemporaneità. Le voci che vengono raccolte in questo libro marcano molte continuità ma forse a ancora più delle discontinuità, sta a noi mettere tutto produttivamente al lavoro, senza lasciarci prendere da nostalgie dei bei decenni passati. In questo senso il lavoro che è stato fatto vuole essere solo un punto di partenza, un re-inizio, aperto e pronto a cogliere ogni suggestione proveniente da chiunque abbia voglia di contribuire”. In bocca al lupo per i prossimi passi, allora.
Recensione tratta dalla newslettere di PuntoCritico.info del 23 giugno.
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