Sanità
“La peste”, ovvero dell’importanza delle cabine di regia
Avete mai notato che ne La Peste di Camus i personaggi principali sono variegati e diversi? Quello che potremmo definire il nucleo di intervento di Orano è composto da: un medico (Bernard Rieux), che gira casa per casa; un insolito cronista (Jean Tarrou), che scrive su un taccuino la cronaca dell’epidemia e svela caratteristiche del contagio poco evidenti; un giornalista (Raymond Rambert), che, seppur animato da forti desideri di fuga, decide di battersi e aiutare; un altro medico (Castel), che cerca e sperimenta un rimedio contro il morbo; un giudice (Othon), che rimane inizialmente indifferente alla malattia, ma poi si dà da fare. Traslando tutto questo nella contemporaneità, si può dire che nel romanzo intervengano contro l’epidemia: clinica, epidemiologia, volontariato, ricerca, politica.
Nel migliore dei mondi possibili, una policy di Salute Pubblica è disegnata ricalcando le caratteristiche del morbo: come si diffonde e quanto velocemente, quanto tempo rimane asintomatico, come evolve la patologia, quali categorie sociali sono più esposte, come agisce la cura, qual è la reale possibilità di un vaccino, quali sono i comportamenti prescritti per prevenire il contagio ecc. Si tratta di una grande moltitudine di aspetti, che rendono la policy complessa e sfaccettata e necessitano inderogabilmente di una squadra multidisciplinare.
Consideriamo quanto è stato messo in piedi per contrastare il contagio da HIV, un esempio di eccellenza italiana: i test vengono svolti gratuitamente o addirittura possono essere acquistati in farmacia, le associazioni vengono dotate di unità mobili per andare nei luoghi in cui ci si scambia siringhe o si pratica sesso per lavoro, si favorisce l’apertura di check point per fare test rapidi, si forniscono gratuitamente i farmaci di ultima generazione, si sono fatte campagne di sensibilizzazione all’uso del preservativo. Tutto per tallonare il virus, a partire dalla consapevolezza di come si muove nella popolazione.
Risulta chiaro, tuttavia, che il mondo clinico risulti il fulcro delle politiche di contrasto alla diffusione di HIV in Italia, e infatti l’esito è che, sebbene i risultati siano ottimi, ci si arena contro lo scoglio di circa 3500 contagi all’anno, un plateau che va avanti ormai da anni, che testimonia la presenza di un bacino sommerso di persone con HIV, stimato attorno alle 30 mila unità: persone che non sanno di essere sieropositive e hanno rapporti sessuali non protetti. Ecco ciò che l’approccio clinico non può comprendere: come persuadere il maggior numero di persone a ricorrere a precauzioni nei rapporti sessuali, come far sì che le persone facciano il test. Qui i medici vanno a tentoni: chi usa la strategia del terrore, chi vorrebbe fare test a tappeto, chi invece si arrende all’idea che non si possa fare molto.
Veniamo al coronavirus. L’approccio ospedaliero al coronavirus è stato esemplare. Intere cliniche sono andate incontro a un totale riassetto organizzativo, che ha visto la fluidificazione delle normali specializzazioni di reparto e un ridisegno in due sole macro-aree: Covid e non-Covid. I medici ospedalieri, indipendentemente dal fatto che fossero internisti o chirurghi, infermieri, OSS, tutto il personale è stato reclutato per far fronte all’emergenza. I Pronto Soccorso sono stati riorganizzati totalmente, creando una funzione-cuscinetto che è quella dell’Osservazione, in cui vengono collocate le persone in attesa dei risultati del test prima di essere destinate al reparto Covid o non-Covid. A fare invece acqua da tutte le parti, invece è stato l’approccio in termini di Salute Pubblica, ossia tutto ciò che sta prima, durante e dopo l’ospedalizzazione del malato.
Salute Pubblica significa innanzitutto contenere i contagi; in questo senso, già con l’epidemia di SARS del 2002-2004, sono stati formulati dei protocolli di intervento, o comunque si è avviata un’ampia riflessione su come prevenire in futuro epidemie peggiori. Oggi si inizia a constatare come la seconda ondata di contagi, quella nosocomiale (che è stata anche la prima a rendere visibile che Covid19 fosse più pericolosa di un’influenza), fosse evitabile, e di come un lockdown precoce nei luoghi dei primi focolai avrebbe portato a un contenimento maggiore della diffusione del virus. Salute Pubblica significa dotare le persone più esposte, nel caso specifico il personale sanitario, di tutti i dispositivi necessari a lavorare in totale sicurezza, sia negli ospedali che nelle case di riposo. Dalle notizie circolanti, sembra che non tutti gli ospedali abbiano a disposizione mascherine, tute e guanti, mentre nelle case di riposo pare addirittura che la gestione sia stata a dir poco disastrosa. Salute Pubblica significa anche coordinare le attività di raccolta dati a livello centrale, perché – benché l’epidemiologia non sia una scienza esatta – è comunque possibile tramite tecniche statistiche inferire quanti siano i reali contagi, quale la letalità reale ecc. Da questo punto di vista, ogni Regione si è mossa in maniera indipendente, cercando di accaparrarsi l’occhio di bue della stampa per mettere in scena il copione di “Io sono migliore”. Salute Pubblica vuol dire coordinare la sanità ospedaliera e quella territoriale, ossia mobilitare le ASL affinché assolvano alla propria funzione di organizzazione della presa in carico integrata non solo dei malati con sintomi gravi (che, una volta in ospedale), sono in fondo al sicuro, ma anche di quelli con pochi sintomi o nulli (come si sta sperimentando a Piacenza). Salute Pubblica, infine, in un territorio regionalizzato come quello italiano, significa analizzare rapidamente le buone pratiche e metterle a sistema, ossia creare quantomeno un meccanismo di apprendimento centrale che raccolga, analizzi e smisti i modelli che si sono rivelati efficaci.
Salute Pubblica, oggi, significa valorizzare l’infinità di saperi che possono dar vita a policy sofisticatissime ed efficaci per la gestione di situazioni complesse che, dobbiamo dircelo, non sono l’anomalia della contemporaneità, ma la sua espressione fisiologica. Cabine di regia in cui siano rappresentate: le Scienze Sociali, per identificare i modi in cui le persone tenderanno a comportarsi di fronte al pericolo di contagio e pre-trattare le immancabili frizioni tra attori diversi (per esempio, medici di base e ospedalieri), la Medicina, per integrare lo sguardo clinico ospedaliero con quello territoriale, l’Epidemiologia per tenere conto dei numeri e fare previsioni su basi certe, la Protezione Civile, per coordinare gli interventi a livello operativo, la Ricerca, per rivelare innanzitutto i dettagli del contagio, e poi dirigersi verso terapie e vaccini. Manca la Politica. Che forse non deve assumersi il compito della gestione esperta, ma di creare le possibilità affinché questa possa configurarsi e realizzarsi.
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