Scienze

La hot hand delle scienze comportamentali

2 Novembre 2014

Nelle scienze comportamentali c’è un risultato celebre e noto in letteratura come Hot hand fallacy, la fallacia della mano calda, e si riferisce a uno studio seminale degli anni ’80 in cui Gilovich, Vallone e Tversky sfatarono un mito ancora oggi molto discusso tra addetti ai lavori, giocatori e supporters nel basket, e cioè quel fenomeno per cui, in certe partite, ci sono giocatori la cui probabilità di infilare un canestro aumenta proprio con quelli già realizzati. È come una sorta di momentum per cui, appunto, la mano calda garantisce al giocatore di turno la possibilità di infilare una serie di hits. Perché ciò possa accadere, non è materia di indagine: vuoi una maggiore fiducia nelle proprie capacità che cresce con i canestri messi a segno; vuoi una maggiore coordinazione oculo manuale e controllo del proprio corpo. Se, però, questo fatto fosse vero, e da molti è ritenuto tale, è chiaro che tutte le strategie e tattiche ne verrebbero influenzate: il giocatore con la hot hand dev’essere marcato meglio, per quanto riguarda la difesa, e i suoi compagni hanno tutto l’interesse a passargli la palla per sfruttarne la vena realizzativa.

Lo studio di Gilovich, Vallone e Tversky ebbe il merito di essere tra i primi a utilizzare i dati delle partite di basket come una sorta di esperimento naturale in cui verificare l’ipotesi della mano calda: servendosi delle statistiche disponibili per i 76ers di Philadelphia, così, gli studiosi mostrarono che, per tutti i giocatori della squadra, non esisteva alcuna evidenza della mano calda: la probabilità di realizzare un canestro, insomma, non aumentava con i canestri realizzati, né si discostava dallo score realizzativo medio di ogni giocatore. L’esperimento fu replicato sui tiri liberi dei Boston Celtics perché il tiro libero ha alcune caratteristiche che eliminano molti effetti di disturbo dall’analisi: il giocatore non deve fronteggiare, per esempio, un difensore che ne ostacoli il tiro e, soprattutto, il tiro stesso viene sempre fatto dalla stessa posizione. Anche qui, però, i dati sconfessarono l’esistenza di un momentum. Gilovich, Vallone e Tversky realizzarono, infine, un esperimento di laboratorio, servendosi di alcuni giocatori di basket della squadra universitaria di Cornell e facendo loro tirare serie di tiri allo scopo di verificare, in vitro, l’esistenza di un effetto ‘mano calda’. Anche qui, nessun risultato.

Lo studio dei ricercatori, pubblicato su Cognitive Psychhology, è diventato una pietra miliare nelle scienze comportamentali, una delle fallacie cognitive più riconosciute, tanto che lo stesso premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman, nel suo Pensieri Lenti e Veloci, ne dà l’imprimatur di evidenza sperimentale incontestabile.

Ebbene, è recentissima la pubblicazione di uno studio, effettuato da due ricercatori, uno dei quali attualmente in Bocconi (Joshua Miller), che invece, come dice il titolo del working paper, rappresenta una vera doccia fredda per la fallacia della hot hand. Realizzando un esperimento in vitro con giocatori semi-professionisti spagnoli che replica e potenzia quello originario di Gilovich, Vallone e Tversky, infatti, gli studiosi trovano un risultato netto e statisticamente significativo a favore dell’esistenza di un fenomeno di miglioramento della performance, sia a livello individuale sia in media, tra tutti i giocatori in funzione dei canestri realizzati. I due economisti inoltre mostrano come la mano calda sia anche prevedibile, nel senso che, somministrando un questionario ai giocatori stessi, il risultato è che il giocatore indicato come quello con la maggiore probabilità di infilare un canestro dietro l’altro, ha po, in effetti, la prestazione migliore. Miller e Sanjurjo realizzano un esperimento ben congegnato, con un setting che ricalca quello originale e corregge, con argomentazioni valide, alcuni aspetti che ne potrebbero aver inficiato i risultati. I due ricercatori, inoltre, si servono di test statistici più robusti e di un numero di osservazioni maggiore, che aumenta la capacità predittiva dei test stessi.

Il risultato è lungi dall’essere conclusivo e ci sono alcuni aspetti controversi anche in questa ricerca, in primis se sia davvero meglio utilizzare dati in vitro, per quanto ben congegnati, rispetto all’evidenza ‘in game’, pur con tutti i problemi di questi ultimi (anche se la letteratura dei Big Data sta migliorando la qualità delle statistiche disponibili e cominciano a esserci evidenze della mano calda anche con i dati veri delle partite dei campionati professionisti). Il punto assai importante, tuttavia, è quasi epistemologico: il bello della scienza, di quella almeno onesta intellettualmente e che utilizza un protocollo rigoroso, è infatti l’idea che non ci siano e non ci possano essere risultati conclusivi e che impolverano tra le cartelle di un desktop. Nessun fenomeno, sopratutto all’interno delle scienze socili, può o deve assumere il connotato della certezza indubitabile e quasi assiomatica, pena il rischio che si trasformi, sulla bocca di molti studiosi, in quel ricorso all’auctoritas esterna che ricorda tanto Il nome della rosa di Umberto Eco.

L’ha detto Tversky, l’ha detto Kahneman, l’ha detto Krugman. E ci basti così.

Se questo è l’atteggiamento, i rischi sono molteplici, tanto più se si pensa agli ambiti di letteratura in cui la fallacia della mano calda è stata poi utilizzata, estesa al decision making in senso lato e con applicazioni nel mondo delle scommesse e delle scelte finanziarie. L’eleganza e la bellezza dell’esperimento di GVT è innegabile e lo dimostra anche lo studio che ne sconfessa i risultati: un esperimento ben realizzato può essere replicato nel suo setting, anche appunto allo scopo che altri scienziati ne possano rafforzare i risultati, se li confermano, oppure controvertire, qualora individuino degli aspetti cosiddetti confounding (che sporcano i risultati, per parlare potabile) e trovino il modo di migliorare il protocollo. La bellezza della letteratura sperimentale e del metodo scientifico sta proprio in questo dialogo profondamente umile e serio. Non ci sono certezze, che non significa che non ci siano solidità di teorie e robustezza di risultati applicabili. C’è un livello ragionevole di risultati sicuri a livello locale e, a volte, generalizzabili, che mai, però, può scalfire la possibilità di mettere in discussione un’ipotesi con lo stesso metodo e, dunque, di poter trovare risultati diversi.

Il guaio è quando, appunto, si smette di domandare e si accettano le risposte a prescindere, facendo leva sulla reputazione di un grande nome e sull’indubitabilità delle sue parole. Una piccola dimostrazione euristica che ha valore nelle nostre vite quotidiane sta nella quantità di citazioni attribuite ad Einstein che appaiono sulle nostre bacheche, spesso palesemente false e, soprattutto, piuttosto inutili e depotenzianti ai fini del messaggio che si intende veicolare. Peggio ancora quando una teoria, vessillo e stendardo di una fazione in un campo di battaglia, si trasforma in scudo. Ed è uno scudo disonesto, quello, che sconfessa a volte lo stesso metodo per il quale si dice di voler parteggiare. Nella data-driven society, accanto alle competenze, l’onestà intellettuale e la reputazione diventano fondamentali e imprescindibili.

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