Agricoltura

La guerra del pesce nel Mediterraneo

28 Agosto 2021

Nel Mediterraneo è in corso una vera e propria guerra. L’oggetto della contesa è il pesce, una risorsa sempre più scarsa ma al centro di enormi interessi. E come tutte le guerre, anche questa è combattuta su diversi fronti, e ha molti volti. C’è – ovviamente – il fronte del mare stesso, su cui si accanisce uno sforzo di pesca insostenibile. Ci sono i conflitti fra la pesca industriale e quella artigianale, che ha un impatto ambientale inferiore, ma è anche poco ascoltata dalla politica e dai grandi media.

C’è la pesca illegale, che oltre a danneggiare gli ecosistemi può anche mettere a rischio la salute umana. Ci sono le tensioni fra la necessità di regolare la pesca e i bisogni di chi lavora nel settore, con aziende da mandare avanti, spese a cui far fronte, stipendi da pagare. E ci sono gli scontri (con tanto di raffiche di mitra, talvolta) fra le barche di paesi UE e quelle di altre nazioni mediterranee in zone marine di confine (zone pescose, e quindi contese).

Tra queste ce n’è una con cui l’Italia ha parecchia familiarità: è il Canale di Sicilia. Che abbonda di specie redditizie, come il famosissimo gambero rosso, lo scampo, il nasello, e infatti è una delle zone di pesca più importanti del Mediterraneo. Per lungo tempo il Canale è stato appannaggio semi-esclusivo della flotta italiana, in particolare di quella di Mazara del Vallo, che secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) nel 2008 rappresentava 278 dei 485 pescherecci a strascico siciliani.

Oggi però il Canale di Sicilia subisce anche lo sforzo di pesca di flotte di paesi extra-europei, come Tunisia ed Egitto. Non mancano gli sconfinamenti territoriali, come quello del febbraio scorso, quando la Guardia di finanza ha intercettato due pescherecci egiziani mentre pescavano in acque italiane a largo di Lampedusa; o, caso più eclatante, quello di maggio, quando il comandante di un peschereccio di Mazara del Vallo è stato ferito lievemente dai colpi d’arma da fuoco di una motovedetta militare libica che l’aveva sorpreso a pescare nella Zona di protezione della pesca (ZPP) istituita da Tripoli nel 2005.

«Noi non possiamo andare oltre le quaranta miglia senza la licenza per pesca mediterranea, che costa venticinquemila o trentamila euro, mentre gli altri vengono qui a fare il loro comodo – dice a Gli Stati Generali un membro di una marineria siciliana che chiede di non rivelare il suo nome –. E pensi a Malta, che quando è entrata nell’UE si è appropriata di venticinque miglia nautiche, avendo quattro pescherecci in croce. Il risultato è che le nostre barche non sono più potute andare a pescare nel banco di Malta, che era la nostra vita. Per noi la pesca è andata bene fino alla fine degli anni ‘90, dopodiché è stato un tracollo».

Francesca Biondo, direttrice di Federpesca, conferma: «sino alla definizione di misure gestionali condivise tra tutti i Paesi rivieraschi che hanno accesso agli stessi stock ittici nel mar Mediterraneo, la regolazione unilaterale dello sforzo di pesca in capo alla flotta peschereccia italiana si traduce in un danno enorme». Quella italiana è ancora tra le flotte più consistenti dell’UE per numero di imbarcazioni, ma la concorrenza con altri paesi non è l’unico problema segnalato da pescatori e associazioni di categoria. Secondo Biondo infatti è necessario invertire una tendenza che negli ultimi anni ha visto uno smantellamento della flotta con relativa perdita di posti di lavoro. «Solo negli ultimi vent’anni la flotta italiana si è ridotta del 20%, passando da circa quindicimila a dodicimila battelli». Le aziende del settore, segnala ancora la direttrice di Federpesca, devono fare i conti con «un’incertezza eccessiva dovuta a un quadro normativo nazionale ed europeo che negli ultimi dieci anni ha ridotto il numero di giornate di pesca e i fatturati delle imprese, causando anche una minore propensione a nuovi investimenti».

Ma se la flotta italiana di imbarcazioni per la pesca è calata, è anche perché c’è sempre meno pesce da pescare. Prendiamo il caso dell’Adriatico, in particolare di quello nordoccidentale, famoso per la ricchezza del mercato ittico di Chioggia e per le prelibate anguille delle Valli di Comacchio. Come nel resto del Mediterraneo, dagli anni ‘80 in quest’area c’è stato un calo non solo della quantità del pescato (le tonnellate annue portate a terra dalle imbarcazioni da pesca), ma pure delle sue dimensioni.

«Consideriamo i tonni, per esempio – spiega da Cesenatico Attilio Rinaldi, presidente della Fondazione Centro Ricerche Marine –. Adesso vengono pescati esemplari che non superano i due metri, con un peso di sessanta-ottanta chili, mentre una volta si pescavano tonni più anziani e quindi anche più grandi. La riduzione della taglia è un problema che non riguarda solo i grandi predatori, ma anche il pesce azzurro, come la sardina o l’alice». Un mare con pesci sempre meno numerosi e sempre più piccoli non basta più per tutti. La torta si sta restringendo, e in fretta.

«La sofferenza dell’attività di pesca ha portato a una diminuzione della flotta del settore, diminuzione che è stata accompagnata da contributi UE e nazionali – sottolinea Rinaldi –. In Emilia-Romagna siamo intorno a un calo del 40% rispetto agli anni Settanta». Il calo del pescato comunque è un fatto non solo nel Mediterraneo, ma a livello globale. In un mondo popolato ormai da quasi 7,8 miliardi di persone e sempre più affamato di pesce (anche a causa del dilagare globale di mode alimentari molto trendy come sushi e poke bowl) gli organismi marini di interesse commerciale, siano essi pesci, crostacei o molluschi, subiscono un tasso di mortalità da pesca che eccede il limite della sostenibilità.

Pixabay

Nel Mar Mediterraneo però la situazione è ancora più grave. Secondo i dati FAO, il mare nostrum è il mare più sfruttato del mondo, con il 75% degli stock ittici pescati in un modo insostenibile. «Lo sforzo di pesca al momento è indubbiamente la causa più importante delle cattive condizioni di molti stock ittici del Mediterraneo – conferma Rinaldi –. A lungo andare i metodi di pesca più impattanti distruggono gli ecosistemi e i luoghi di riproduzione e crescita di molte specie di interesse commerciale, che alla fine non si trovano più. Per questo sarebbe fondamentale favorire la conversione di chi pesca con i metodi più impattanti».

Uno di questi metodi è il rapido, attrezzo tipico delle marinerie italiane, specie adriatiche: una rete a strascico con intelaiatura rigida che viene trainata a diretto contatto con il fondale, e con una fila di denti di ferro che penetrano nel fondo per diversi centimetri, un po’ come un grande rastrello. «Le barche potenti, con oltre 1.550 cavalli di potenza, trainano anche tre-quattro rapidi di quattro metri l’uno – sottolinea Rinaldi –. Il loro effetto è assolutamente distruttivo».

Altrettanto distruttiva è la pesca illegale. In particolare la pesca a strascico in aree vietate: su fondali bassi, sottocosta, e sulle praterie di posidonia, preziose perché assorbono anidride carbonica e sono habitat preziosi per la riproduzione e la crescita dei pesci. Secondo il comandante Giuseppe Spera, Capo sezione del Centro di controllo nazionale pesca (CCNP) della Guardia Costiera, «la pesca a strascico può avere delle conseguenze, non solo sugli stock ittici e il loro ripopolamento, ma anche sull’ecosistema marino in generale. Sebbene la pesca a strascico illegale non sia stata completamente debellata, e infatti si verificano situazioni in cui il personale della Guardia Costiera contesta l’utilizzo di reti a strascico entro le tre miglia dalla costa, a profondità non consentite, è un fenomeno sotto controllo e in forte calo».

In questo sono determinanti i sistemi di localizzazione satellitare che l’Unione Europea ha reso obbligatori per alcuni segmenti della pesca. Come l’AIS, acronimo inglese che sta per Automatic Identification System. «Questo ci permette di tenere sotto controllo tutti i pescherecci che hanno l’obbligo di installare questi sistemi di localizzazione satellitare e di intervenire in caso di violazione delle norme» spiega Spera.

Ma gli esperti sentiti da Gli Stati Generali sottolineano che la pesca a strascico non ha effetti negativi solo se praticata in aree dov’è proibita, ad esempio su fondali profondi meno di cinquanta metri, o sulle già citate praterie di posidonia, o nelle aree marine protette. Fausto Tinti è professore associato di zoologia all’Università di Bologna, e da venticinque anni studia la sostenibilità della pesca e la conservazione degli animali marini. «Lo strascico è il fattore di stress più forte per la biodiversità del Mediterraneo – nota –. Anche perché si tratta di un mare con molte aree ideali per la pesca a strascico, che oltretutto non è selettiva: raccoglie tutto ciò che trova sul suo percorso, ma poi solo il 30% di ciò che è pescato viene tenuto. Tutto il resto, come stelle marine, spugne, coralli molli, non è commercializzabile, quindi viene ributtato in mare: morto, o quasi. Ovviamente questo è un danno per l’ecosistema».

Per gli addetti ai lavori niente di tutto questo è una novità. «I danni della pesca sugli habitat e gli stock ittici sono un problema ormai decennale, e da tempo esistono indicazioni molto chiare di riduzione dell’impatto – segnala Roberto Danovaro, professore di biologia marina e presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli –. Tuttavia, per logiche politiche e lobbistiche, vengono sempre proposte nuove deroghe per rinviare l’entrata in vigore di provvedimenti a riguardo. Basti pensare alla pesca con le vongolare turbosoffianti e alla richiesta di diminuire ulteriormente la taglia commerciale delle vongole. Inoltre, non solo nel Mediterraneo ma in tutto il mondo, il controllo è scarsissimo, anche perché spesso è assegnato a organismi sovraccarichi di lavoro. E di fronte a circostanze del genere molti trovano difficile rimanere onesti quando altri vanno a pescare dove non dovrebbero». Si tratta di una situazione, osserva Danovaro, legata soprattutto al passaggio dalla pesca artigianale a quella industriale, iniziato in modo deciso negli anni ‘60. «Ormai la pesca rappresenta degli interessi molto forti, c’è un grado di tolleranza troppo elevato nei confronti della pesca illegale. E a farne le spese è l’ambiente».

In poche parole, è fondamentale una trasformazione della pesca italiana. Una delle strategie, dice Saša Raicevich, responsabile dell’Area per la conservazione, gestione e uso sostenibile del patrimonio ittico dell’ISPRA, è puntare su «iniziative per valorizzare la pesca artigianale, che tendenzialmente ha metodi meno impattanti ed è molto più selettiva, e in Italia rappresenta fra il 70% e l’80% dell’intera flotta. È sempre più vista come un asset strategico, da valorizzare, anche dal punto di vista culturale. Molti pescatori hanno già intrapreso questo tipo di percorso, sarebbe importante trovare il modo di favorirli. Non è un processo semplice, e non si può partire dalla colpevolizzazione di un intero settore».

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Da parte sua Giampaolo Buonfiglio, presidente dell’Associazione generale cooperative italiane, AGCI Agrital, sottolinea che «il grosso della produzione della pesca italiana proviene dallo strascico, che di fatto rifornisce i nostri mercati ittici per l’80-90%. È il metodo di cattura che più di tutti oggi si trova sul banco degli imputati, ma se effettuato rispettando le regole, con le maglie regolamentari e senza appesantimenti della rete, non ha un interessamento del fondo violento come talvolta si vuol far credere».

Nel 2019 il Parlamento e il Consiglio UE hanno adottato un piano pluriennale stabilendo una progressiva riduzione delle giornate di pesca a strascico nel Mediterraneo occidentale di specie come il nasello, lo scampo e il gambero rosso, fino a un massimo del 40% entro la fine del 2024. «Il settore pesca è consapevole che nel Mediterraneo ci sono dei problemi da risolvere, che diversi stock sono in sofferenza, e che è in atto una crisi ambientale, in termini generali – osserva Buonfiglio –. Però riteniamo che non non sia questa la cura giusta: per un’impresa questi livelli di inattività forzata non sono sostenibili».

Secondo l’esponente della marineria siciliana citato all’inizio di questo articolo, «l’Unione Europea legifera per il Mediterraneo come se si trattasse dell’Oceano Atlantico, mentre qui la situazione è completamente diversa. Bisogna trovare delle soluzioni concordate, non farle cadere dall’alto come se i pescatori fossero i razziatori del mare». Quando gli si fa notare che Bruxelles legifera per regolare soprattutto lo strascico, non metodi di pesca meno impattanti, il pescatore replica: «ho capito, ma la gente che fa strascico come converte il lavoro che ha? Con il pescaturismo? Cosa sono tutte queste fesserie?»

Trovare una soluzione è senz’altro difficile e richiede il contributo di tutti, consumatori inclusi. Non si può continuare a pretendere il pesce fresco al ristorante, mangiare sushi e poke bowl due o tre volte a settimana, ignorare le condizioni di sovrasfruttamento che per decenni abbiamo inflitto alle risorse ittiche mediterranee, fare finta che la stragrande maggioranza del pesce che mangiamo in Italia non sia importato.

Ovviamente i guai del Mediterraneo non sono collegati solo alla sovrapesca: inquinamento, altissime quantità di plastiche e microplastiche, traffico navale intenso, cambiamento climatico, diffusione di specie aliene sono tutti fattori che impattano sul mare nostrum. «La situazione del Mediterraneo, come pure di tutti i mari del mondo, è decisamente grave – nota Monica Panfili, biologa marina e tecnologa del CNR-IRBIM di Ancona –. C’è il bisogno urgente di un radicale cambiamento culturale e sistemico per porre rimedio a una situazione che sta evolvendo velocemente verso un punto di non ritorno». Cambiare alcuni dei modi in cui si pesca potrebbe essere un buon punto di partenza.

 

Immagine in copertina: Pixabay, foto di Ivan Khmelyuk

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