Scienze

In difesa di Scienze della Comunicazione

20 Gennaio 2015

Non sono uno a cui piace fare polemiche pubbliche, al massimo solo con gli amici in privato. Però quando ho letto l‘articolo di Paolo Cammarano sulla critica a Umberto Eco e a Scienze della Comunicazione (l’ennesima di una lunga fila), mi è venuta voglia di rispondere e aprire una polemica.

Sono stufo di sentire l’ennesima, stereotipata, critica a questo corso di studi. L’autore dell’articolo è un altro di quelli che si vergognano di essersi iscritti a questo corso di laurea e si uniscono al coro dei critici per riguadagnarsi una verginità accademica che sentono perduta per il solo fatto di avere una laurea in Scienze della Comunicazione. Io lo ammetto con candore: ho una laurea in Scienze della Comunicazione (vecchio ordinamento), conseguita a Siena nel 2002, con una tesi sulla storia e gli usi sociali delle web radio, relatore prof. Enrico Menduni. E sono felice che Umberto Eco e gli altri abbiano aperto questo corso di studi, nel 1992, perché se oggi sono felice del lavoro che faccio lo devo in buona parte a quello che ho studiato. Volevo lavorare in radio, ed è successo. Volevo continuare a scrivere. Ed è successo. Volevo che queste cose diventassero il mio lavoro, e con molta fatica, è successo. Sto per scrivere un articolo in difesa di questo corso di laurea (le critiche le trovate in fondo, ci sono anche quelle, tranquilli), chi sta inorridendo al solo pensiero, clicchi pure la x sopra questa pagina.

Ringrazio Umberto Eco per averlo fatto. In Italia gli studi sulla comunicazione sono arrivati molto più tardi che nel resto d’Europa e degli Stati Uniti, dove sono nati. Le ragioni sono molte, non ha senso elencarle qui. Ma se fossero arrivati prima, probabilmente oggi non avremmo i tassi di analfabetismo mediale che abbiamo. Grazie a Umberto Eco e altri si è sdoganato un approccio allo studio dei testi non più basato solo su quelli letterari e cartacei. Finalmente arrivarono i media studies (già col Dams negli anni settanta, a dire il vero e quella novità portò con sé il Settantasette bolognese, Andrea Pazienza, Pier Vittorio Tondelli, Enrico Palandri e tanti altri autori, scrittori, registi, pubblicitari). Io ad Eco e all’università di Siena devo solo dire Grazie. Grazie per avermi fatto capire come si legge un testo (audio/video/foto/fumetto) e come si disinnesca un’ideologia contenuta in esso. Grazie per il Trattato di semiotica generale, grazie per avermi fatto credere che la mia passione per la musica e la radio fosse qualcosa che si poteva prendere seriamente. Grazie a Omar Calabrese (semiotica dell’arte), Tarcisio Lancioni (sociologia dei media e semiotica del testo), Giovanni Manetti (semiotica generale), Enrico Menduni (comunicazione di massa), Sebastiano Bagnara (interazione uomo-macchina), Cristiano Castelfranchi (psicologia cognitiva), Luigi Rizzi (linguistica generale), Fabio Bellissima  (informatica, – mi ha insegnato che cosa fosse la macchina universale di Turing), Maurizio Boldrini (giornalismo), Antonio Rizzo (sistemi multimediali), Ernesto Screpanti (economia politica), Andrea Messeri (sociologia generale), Nicola Labanca (storia contemporanea), Massimo Squillacciotti (antropologia culturale), Roberto Paci Dalò (drammaturgia dei media), Peppino Ortoleva e tutti gli altri grandi prof che ho avuto in quegli anni. E’ la prima volta che lo faccio, che mi volgo indietro e mi rendo conto di quanto queste persone siano state importanti per un ragazzo di provincia cresciuto fino ad allora senza maestri. Se ci penso bene, ho un ricordo preciso legato ad ognuno di loro, di cose che ho imparato e che mi sono rimaste addosso nel tempo. Omar Calabrese invitava gli studenti a casa sua, o in osteria, a fare riunioni di redazione per riviste che non uscivano mai, ma intanto assorbivi idee, linguaggi, nomi, aneddoti. Maurizio Boldrini mise in piedi la prima radio universitaria italiana, in Fm e il primo giorno venne a fare la rassegna stampa insieme agli studenti. Alla fine dell’anno faceva una cena per tutti i redattori alla Certosa di Pontignano e alla fine del suo corso organizzava cene mitiche a casa sua. E’ lì che ho iniziato a fare radio e ho capito che volevo continuare a farla. Facevo un programma che si chiamava Così lontano, così vicino, in cui usavamo gli studenti in Erasmus come corrispondenti stranieri e aprivamo vantandoci di avere la più grande redazione di inviati esteri esistente. Altro che citizen journalism. Con Roberto Paci Dalò, ancora prima, si progettava una radio d’arte, dal nome Itaca. Luigi Rizzi invitò Noam Chomsky, in quanto linguista, non in quanto attivista. Antonio Rizzo ci coinvolse in una gara per disegnare interfacce per far navigare i ciechi nelle biblioteche elettroniche e il progetto vincente andò a presentarlo a Cupertino. Sebastiano Bagnara mescolava alle sue lezioni sull’errore umano digressioni letterarie dalle quali uscivi sempre con la sensazione che c’era un immaginario e un lessico meraviglioso finalmente a portata di mano e di libreria. Omar Calabrese accettò la mia prima tesina sulle similitudini tra il punk e il dadaismo mentre Tarcisio Lancioni colse nel segno quando valutò come un po’ “rapsodico” il mio modo di scrivere, correggendo una tesina sul racconto Emma Zunz di Borges. L’Università di Siena premiava i progetti creativi degli studenti con il bando Parole e Musica: io e altri due compagni ricevemmo due milioni di lire e ce ne andammo a Porto Alegre a girare un video documentario sul Social Forum. Non fu un granché, ma imparai a girare e montare video. Alcuni giorni prima della partenza per il Brasile Marco Giudici, che gestiva la sala cinema di Lettere, ci aveva lasciato vedere L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov e in Brasile non facevo altro che imitare le sue riprese da punti di vista nuovi. Vennero una merda, ma ero giovane e avevo il diritto di provare, imitare, sbagliare. La sala di cinema di Lettere era una sala aperta, gestita collettivamente, dove ogni mercoledì sera proiettavano dei film invisibili altrove, film veri, con le pizze, e ogni tanto saltava la luce, ma la sala era strapiena e molti ne approfittavano per limonare. Gli anni di Siena sono stati anni meravigliosi, non lo dico per nostalgia della giovinezza e non solo perché l’Università di Siena all’epoca era ricca e i prof ci piacevano, ma soprattutto perché, per qualche strano motivo, quei corsi avevano attratto una generazione di studenti fuori sede che venivano da tutta Italia, tutti molto, ma molto più in gamba di me. Conobbi hacker pescaresi, graffitari marchigiani, poeti, ex fisici e ingegneri pentiti fiorentini, chitarristi livornesi, nerd milanesi, appassionati di musica pugliesi e modenesi. Imparai da loro almeno tanto quanto imparai dai prof. Oggi questi miei amici sono sparsi ai quattro venti, sono cresciuti, sono diventati degli apprezzati professionisti. Chi vive a New York e lavora alla Disney, chi fa il giornalista, chi fa il documentarista a Bruxelles, chi il reporter locale, chi l’interaction designer a Parigi, chi ha aperto una start up a Berlino, chi l’autore televisivo o il consulente o il pubblicitario, chi l’insegnante di sostegno, il fumettista, il fotografo, il curatore d’arte contemporanea  o l’operatore di radio comunitaria. Molti hanno continuato a studiare, dottorati, assegni di ricerca, e tanti se ne sono andati all’estero. Non tutti sono felici, non tutti stanno bene, ma lavorano, sanno fare bene alcune cose, e un po’ di quello che sono diventati lo devono (molto più di quello che immaginiamo) a quegli anni e a quella facoltà.

Questo è ciò che è stata Siena per me, una università conviviale, e se oggi sono riuscito a trovare lavoro e soddisfazione come ricercatore in comunicazione (all’università Iulm di Milano, dove ho avuto la possibilità di continuare a studiare la radio) e autore radiofonico (a Radio2 Rai) è grazie a quegli anni lì e a tutte le persone che ho conosciuto per le strade di Siena.

Certo, qualcuno dirà, “tu sei stato fortunato, ma altrove è stato un disastro”. Ne sono convinto e so che in altre sedi universitarie la qualità dei corsi è altalenante, ma il disastro vero non è stato l’introduzione di Scienze della Comunicazione, quanto il progressivo declino del sistema scolastico e universitario italiano, congiunto ai tagli progressivi ai bilanci delle università e alla crisi economica del 2008, che ha annichilito il mercato dei lavori nelle industrie creative. Oggi l’università italiana sta molto peggio di dieci-quindici anni fa, tranne alcune rare eccezioni. I motivi sono tanti, e no riguardano solo Scienze della Comunicazione. L’università non è solo un posto dove si impartiscono lezioni, è un luogo dove creare legami sociali tra pari e scoprire che c’è un mondo di occasioni inconcepibili per un ragazzo appena uscito dalle superiori, un luogo dove, confrontandoti con i maestri e col contesto, impari ad essere migliore e a immaginare futuri possibili.

Io non credo che l’università debba servire a trovarti un lavoro, basterebbe che servisse a creare cittadini con alto spirito analitico, capaci di maneggiare alcune competenze specifiche e alcuni linguaggi precisi. Queste persone, sapranno trovare lavoro. Ma se proprio volete insistere con la critica del lavoro, bene, sappiate che, stando ai dati AlmaLaurea 2011 riportati nel libro Il progetto comunicazione alla sfida del mercato. Itinerari e prospettive dei laureati nel sud Europa, a cura di Mario Morcellini, Franca Faccioli, Barbara Mazza (Franco Angeli), “a discapito di quanti definiscono Scienze della Comunicazione una fabbrica di illusioni [corsivo nel testo, ndr], il primo impatto sul mercato ha garantito ai primi laureati la quasi piena occupabilità” con l’80% dei neo-dottori che avevano trovato un impiego entro 12 – 18 mesi dalla laurea. Nel tempo le cose sembrano un po’ cambiate e un’indagine Almalaurea del 2011 certifica che “oltre la metà (il 52,6% dei laureati) svolge un’ occupazione a un anno dal conseguimento del titolo. Quota che sale all’84,2% a cinque anni”. La stessa Almalaurea fornisce poi dati più specifici nella sua indagine del 2012: anche in questo caso è un proliferare di occupazioni, contratti a tempo indeterminato, stipendi medi che si aggirano intorno ai 1.300 euro e pochissimi disoccupati. Al Nord la situazione è ancora più rosea. Una indagine di Fondazione Nord Est e Università di Padova uscita nel 2014 riporta che “su un campione di 200 laureati – negli ultimi dieci anni l’88% svolge un’attività retribuita, il 7% l’ha fatto in passato, il 4% non ha avuto esperienze lavorative. Forte è il legame con il territorio: 8 ragazzi su 10 lavorano infatti in Veneto (segue la Lombardia con il 9%) e l’81% è stato scelto da aziende private. Un alto tasso occupazionale, dunque, a scapito di “sensazioni” che vorrebbero Scienze della Comunicazione come fabbrica di disoccupati. Un altro mito, quello della precarietà, è confutato: la situazione contrattuale vede 35% di lavoratori a tempo indeterminato, 31% con contratti determinati, in totale un 66% di impiegati contrattualizzati. Ci sono poi i freelance (11%), mentre i lavoratori parasubordinati (co.co.co, co.co.pro) sono solo l’8%.”

Sono convinto che al momento avremmo bisogno di più laureati agronomi, ingegneri elettronici, matematici, informatici, computer scientist, antropologi digitali, che hanno migliori prospettive di impiego e di guadagno rispetto agli studi umanistici e che avremmo bisogno anche di una riforma dell’università che investisse alcuni miliardi nella ricerca, nel contrasto alla precarizzazione e nella lotta agli sprechi e ai nepotismi, ma tutto questo fa parte del macro discorso sull’università, non c’entra niente con la critica a Scienze della Comunicazione, sdoganata dal ministro Gelmini e diventata uno straw man argument (“argomento dell’uomo di paglia“) di basso interesse, populista, demagogico e mancante di alcun dato. Fatti, non opinioni: “Ora, quello che voglio sono Fatti. Insegnate a questi ragazzi e a queste ragazze Fatti e niente altro. Solo di Fatti abbiamo bisogno nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo coi Fatti si può plasmare la mente degli animali che ragionano: il resto non è il principio su cui ho allevato i miei figli, e questo è il principio su cui ho allevato questi fanciulli. Tenetevi ai Fatti, signori!” (Charles Dickens, Tempi Difficili).

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