Scienze
Il sistema ideologico della guerra neutralizza le altre ideologie
Quando i nostri genitori erano ancora vivi e si chiedeva loro come avevano vissuto l’ultima guerra mondiale, le risposte in genere stupivano. Infatti mettevano in luce che, benché non fossero ovviamente contenti, ci si “adattava”. Così abbiamo costruito l’immagine di un’umanità d’altri tempi che non aveva le straordinarie capacità di consapevolezza reale che si pensa che abbiamo oggi. Accettavano, costoro, tante cose, guerre, regimi autoritari, crisi. Oggi invece abbiamo una coscienza, soprattutto etica, delle vicende umane e quindi una presa di posizione forte e decisa.
Solo che sorge qualche problema sull’oggi: vi sono ampi strati di chi invece è indifferente o addirittura contrario a questa convinzione etica. Se lo vediamo dal punto di vista psicologico, siamo costretti ad operare una cernita, una selezione, tra chi è “razionale”, “ha coscienza delle cose” e chi invece sembra non solo non avere queste attitudini ma anche sentimenti e convinzioni contrarie.
Ora è evidente che ci sono fatti della realtà che portano a tali conseguenze catastrofiche che sono un animo maniacalmente perverso può elogiare (magari con una gradualità gratificatoria a seconda della vicinanza anche fisica di tali eventi).
Allora davanti a questa possibile selettività si dovrebbe cercare di costruire un modello panpsichiatrico per cui per ogni persona sia compilata una cartella clinica che indichi la possibile insorgenza attuale o potenziale del deficit dello status “etico” psicologico. Cioè la distinzione tra “buoni” e “cattivi”, un’operazione che richiama la Santa Inquisizione.
Oppure dobbiamo ricorrere a qualche altro paradigma, magari più propriamente sociologico.
E mi riferisco alla “potenza” dell’appartenenza ad un sistema ideologico. Cioè noi tutti, qualsiasi specificità caratteriale abbiamo, siamo crocevia delle diverse ideologie specifiche relative ai gruppi, alle collettività di appartenenza reale o virtuale. Se io sono “padre” o “madre” sarò condizionato dall’ideologia genitoriale attiva in qual momento, se sono “impiegato” sarò condizionato dall’ideologia impiegatizia, se sono “tifoso” dall’ideologia sportiva ecc.. Poi all’interno di ognuna di queste avrò diverse forme di accettazione dipendenti da diversi fattori, quali il passato storico ideologico nel quale sono vissuto, la conflittualità tra i vari ruoli che assumo e infine, e qui recuperiamo la variabile psicologica dalla diversità della propria struttura dinamica psicologica.
Cioè, con evidente disaccordo con chi fa delle doti morali la nostra impalcatura naturale, siamo condotti qual e là dal movimento, dall’intersecarsi, dalla conflittualità dei raggruppamenti di valori e norme relazionali, cioè dalle varie ideologie. Basti pensare come nella diversità generazionale si giudicano atteggiamenti e comportamenti dei giovani, come sia in atto uno scontro tra mondi virtuali diversi.
Però vi è una situazione, quella della guerra (o delle grandi catastrofi sia naturali, che provocate dall’uomo) che un’ideologia di base, quella appunto militare ha la prevalenza. Una prevalenza che neutralizza e schiaccia gli altri addentellati ideologici.
La guerra è una situazione così estrema che ha sullo sfondo il tema della vita o della morte, che diventa invasiva, militarizza anche il più pacifista. Costringe a prendere una posizione, a stare da una parte o dall’altra. Freud si poneva la domanda, quando rifletteva sui traumi psichici di guerra, come coloro, la maggioranza dei soldati, ne rimanesse immune.
Avanzava quindi l’ipotesi che psichicamente una parte del proprio Io era diventato un Io militare. Cioè, sia pure malvolentieri, abbandonavano il senso di appartenenza al mondo precedente, potevano anche pensare con nostalgia alla mamma o alla sposa, per poi però scattare subito fuori dalla trincea, all’ordine dell’attacco. Qualcuno magari rifiutava. Se gli andava bene finiva in ospedale psichiatrico, altrimenti davanti al plotone di esecuzione. Questo problema è ben presente in chi prepara e dirige gli eserciti in guerra. E tutti quei comportamenti che addirittura vengono ridicolizzati nella vita normale: la disciplina, le divise, le bandiere, le parate ecc. servono proprio a distaccare da altri modi di pensare per creare un Io militare.
La guerra è uno stato limite, appunto, tra la vita e la morte. E questa ideologia del dover combattere contro un nemico, qualunque esso sia, scende dall’animo dei soldati e si riversa anche sulle altre persone. Quando c’è un pericolo di guerra o addirittura ne scoppia una, anche se ovviamente, eccetto qualche caso psicopatologico, vi è rifiuto, l’ideologia che presuppone la presenza di un nemico e la necessità di combatterlo sovrasta la vita di molti, forse anche di tutti e va oltre i conflitti armati, investe rapporti e relazioni pubbliche e private nella vita di ogni giorno.
In altre parole l’ideologia di guerra è una componente determinante di tutta l’esistenza, anche se più o meno mascherata, giustificata, mimetizzata. Il che rende l’opera di pacifisti e persone “buone” molto difficoltosa.
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