Scienze
Il potere può avere sul cervello le stesse conseguenze di una lesione traumatica
“The people have the power
The power to dream, to rule
To wrestle the world from fools”
Il potere può avere sul cervello le stesse conseguenze di una lesione traumatica: maggiore impulsività, sprezzo del pericolo e incapacità di mettersi nei panni dell’altro. Nel nostro Paese il modello di un leader forte, con una robusta e inattaccabile autostima, sebbene spesso distruttivo per le organizzazioni che dirige, è ancora molto diffuso. Spesso il successo dà alla testa e toglie lucidità inducendo a prendere decisioni irrazionali e controproducenti. Una tendenza molto umana da cui anche gli antichi mettevano in guardia.
Nel mito ebraico e cristiano era rappresentata dalle figure di Adamo ed Eva e dal loro peccato. Dietro l’allegoria del frutto mangiato dai due progenitori dell’umanità c’è un atto di superbia. L’albero da cui proveniva era quello della conoscenza del bene e del male e cibarsene equivaleva a dichiarare di avere le stesse conoscenze di Dio e di non avere bisogno di lui.
Montarsi la testa è il difetto umano per eccellenza e il fatto che sia una potenziale causa di guai era stato ben compreso dagli antichi Greci, che avevano un termine intraducibile per mettere in guardia da questo pericolo: Hybris. Nella parola confluiscono tutti quei concetti che riguardano la nostra tendenza a insuperbirsi, a ritenersi superiori agli altri e a pensare che per la propria persona non valgano le normali regole del vivere comune, sconfinando nell’arroganza e nella tracotanza. Si tratta di un insieme di caratteristiche che certo non predispongono a serene relazioni umane e come i Greci avevano intuito, sono spesso conseguenza del fatto di aver raggiunto una posizione di potere.
Già nel mito la hybris è tipica del leader. L’Iliade parte con uno scontro acceso tra Achille e il capo dell’esercito acheo, Agamennone. La causa sarebbe proprio quello che Achille definisce un atto di hybris: Agamennone sta approfittando della sua posizione di vertice per imporre la propria volontà, pensando di non pagarne le conseguenze.
Salire ai vertici, ammoniscono i popoli del passato, sembra a rischio di far girare la testa, e se assumere il comando per poter guidare un’istituzione pubblica o un’azienda privata è spesso necessario, non pochi sono i pericoli collegati ai cambiamenti che questo provoca in chi se ne fa carico. Le peggiori conseguenze sono collegate all’autoreferenzialità spesso legata alla superbia: chi è preda dell’hybris ha lo sguardo più corto e non vede al di là del suo naso e, in particolar modo, non si accorge degli altri, delle loro esigenze, ma anche della risorsa che rappresentano. In sintesi, difetta di quella caratteristica che è tipica delle specie sociali come la nostra: la capacità di immedesimarsi negli altri e di percepirne i sentimenti, i disagi, le aspettative. In altre parole mancano dell’empatia che per esempio, è mancata ai dirigenti di grandi aziende che hanno licenziato in massa centinaia di dipendenti con una videochiamata da Zoom o un messaggio WhatsApp. Si tratta di un atteggiamento indefinibile perché va contro le regole che su cui si fonda il vivere sociale, sfociando nella prevaricazione e derivando da una violenza insita nel fatto di mettere le proprie esigenze al di sopra di quelle degli altri.
Tutto ciò che crea distanza psicologica tra un leader e i suoi potenziali seguaci, mina la capacità di influenzarli, cioè di mettere in atto la sua stessa leadership, la superbia del leader suggerisce che i leader non sono “dei nostri”, e compromette la volontà dei membri del gruppo di impegnarsi per trasformare la visione del leader in un’azione collettiva condivisa.
Un leader affetto da hybris è vittima di una rappresentazione irrealistica del proprio Io, che viene tratteggiato in modo irreale che poco ha a che fare con l’Io reale e subisce gli effetti di una distorsione che deriva da un ego ipertrofico e dall’eccessiva sicurezza che riguarda la capacità di controllare gli eventi.
Il problema dell’eccesso di hybris è molto più frequente negli uomini ce nelle donne che, già da piccole, preferiscono giochi meno competitivi. Da adulte mostrano, inoltre, minor tendenza ad affermare le proprie idee e una minor predisposizione a rimettere in discussione le loro condizioni lavorative, cosa, però, che limita anche la loro possibilità di carriera. Solitamente, per ragioni biologiche o culturali c’è nelle donne una maggior predisposizione alla collaborazione che le mette al riparo dai rischi dell’autoreferenzialità.
Un buon leader coltiva la dote dell’umiltà che passa, per esempio, attraverso l’individuazione di spazi dedicati alla condivisione di idee di gruppo di lavoro. Se L’hybris guarda solo al proprio punto di vista, infatti, l’umiltà non può prescindere da un continuo confronto. Un buon leader sa che, se l’autoritarismo rifugge dalle critiche, al contrario l’autorevolezza sa tenersi stretti i collaboratori più sinceri nell’indicare i punti di debolezza e nell’insinuare i dubbi. Un buona leadership contribuisce ad accrescere il “senso di noi” nel gruppo, cioè l’insieme dei valori condivisi, all’affermazione dei quali tutti contribuiscono. Si tratta di una dote che, lontana da ogni individualismo, prevede anche forti capacità di instaurare un franco dialogo con l’altro.
Infine, un antidoto pratico allo strapotere di una singola parte è quello di rendere ciascuna funzione dipendente da altre, puntando sul valore della collaborazione. Ci sono grandi aziende, ad esempio, che hanno scelto di dare valutazioni non al singolo ma alla qualità della collaborazione, stimolando di conseguenza il desiderio di contribuire attivamente a risultati condivisi che, quando sono positivi, gratificano tutti e, se sono negativi, stimolano l’intero gruppo a darsi da fare, senza puntare il dito su qualcuno in particolare.
Un grande compito in classe collettivo, in cui si può prendere un brutto voto, una sufficienza, o magari, anche un dieci, però tutti insieme.
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