Lavoro
Il peso delle parole nella pandemia
“Le parole sono importanti” urlava con rabbia Nanni Moretti in Palombella Rossa e forse oggi la questione si rivela attuale in relazione all’uso delle parole che politica, media e gli stessi social network stanno facendo in questo contesto di crisi.
Il primo tema che emerge è la difficoltà d’incontro fra scienza e grande pubblico. Si tratta di un problema antico, legato alla mancanza di una tradizione di divulgazione tecnico scientifica supportata da una buona qualità della narrazione che nel nostro Paese fatica a trovare i suoi interpreti. Lo scienziato maneggia la materia, ma spesso i suoi tecnicismi, il lessico – adeguato ad un convegno si specialisti, ma incomprensibile ai più – il tipo di prosa o di modalità espressiva scelta creano incomunicabilità con l’ascoltatore ideale, spesso impreparato rispetto all’analisi dei dati.
Altra nota dolente del nostro sistema culturale: la scarsa attenzione riservata alla formazione, a partire dagli anni della scuola, del pensiero scientifico nei ragazzi. Non si tratta, come sostiene ciclicamente qualche opinionista, di lacune rispetto ai contenuti veicolati dall’insegnamento delle materie scientifiche (l’antica querelle sul liceo classico non porta alcun beneficio alla questione ad esempio), ma della capacità critico analitica che deve essere formata e allenata fin dai primi anni di scuola in tutte le materie previste dai percorsi formativi. Poco importa che ci si concentri sull’analisi di un testo, di un problema matematico, di un processo chimico o dei modelli di un determinato artista: la capacità di osservare, trovare le fonti, confrontare le tesi, metterle alla prova verificandone la correttezza sono competenze spesso trascurate in favore del semplice contenuto. Il sistema di valutazione basato sulle prove Invalsi e la graduale trasformazione in quiz o domanda a risposta chiusa di qualsiasi compito in classe è ulteriore testimonianza di ciò che si ritiene “utile” per la formazione, ma che difficilmente aiuta il formarsi dello spirito critico.
Un concorso di colpa, insomma: da una parte la mancanza di interpreti che possano mediare l’informazione scientifica, dall’altra un pubblico impreparato a riceverla e abituato al refrain “tutte le opinioni hanno uguale diritto d’espressione”.
Le parole però sono importanti e, in un contesto in cui si cercano percorsi interpretativi per una pandemia (o almeno appigli), l’opinione non dovrebbe essere materia d’interesse, ma fatti supportati da dati e prove, verificabili e confutabili. Tutto ciò che non possiede queste caratteristiche non è utile al dibattito e bisognerebbe avere l’onestà di dichiararlo, diversamente si rischia la spettacolarizzazione fine a sé stessa dell’evento, cosa alla quale, in troppi casi, abbiamo assistito sotto il falso pretesto del dovere di cronaca. La differenza può sembrare sottile, ma è in realtà abissale nel momento in cui prendiamo coscienza delle ripercussioni sociali che un certo modo di raccontare la realtà ha sulla percezione e quindi sulla sua stessa interpretazione. E dall’interpretazione, ricordiamoci sempre, passa anche la costruzione della realtà. L’allentamento della “tensione giornalistica” di questi giorni sul Covid19, ha trasmesso a molti la sensazione che il problema sia in via di archiviazione e non, come più realisticamente si dovrebbe pensare, a un buon livello di contenimento.
Nelle fasi iniziali e immediatamente successive la pandemia invece è stata spesso paragonata ad una guerra ma, per quanto il paragone possa sembrare evocativo, siamo molto distanti dalle condizioni oggettive di un conflitto in questo momento. Definire la più grande crisi sanitaria mondiale vissuta in epoca contemporanea come una guerra è una semplificazione, che da una parte ci mette nelle condizioni psicologiche di accettare, come se si trattasse di situazioni ordinarie, inseguimenti aerei di podisti sulla spiaggia e la comparsa dei delatori da balcone, dall’altra ci impedisce di focalizzare l’attenzione su questioni più complesse, ma con maggiori implicazioni socio sanitarie ed economiche. Nella guerra contro il virus non ci si domanda molto di frequente che impatto abbiano i sistemi di produzione sulla propagazione del contagio: non rientrano nello scenario narrativo. Allo stesso modo il mantra “andrà tutto bene se restiamo a casa”, ha – nella percezione comune – rovesciato tutta la responsabilità dell’andamento positivo o negativo dei contagi sul singolo individuo, arrivando a colpevolizzare in modo maggiore un genitore che porta a passeggio il figlio, rispetto alla grande impresa che ha chiesto e ottenuto la prosecuzione delle attività con il cambio di codice Ateco. L’uso stesso del termine normalità – “Quando torneremo alla normalità”, “Servirà tempo per tornare alla normalità” – è indice non tanto di un umano desiderio di recupero di ciò che di positivo, rassicurante e gratificante avevamo nel pre Covid19, ma la volontà di non rimettere davvero in discussione quel sistema che, piaccia o no, ci ha condotti fin qui e, aggiungo, di creare inevitabilmente frustrazione nei cittadini nel momento in cui vengono meno le aspettative “sacrificio/premio” che l’idea stessa di un “andrà tutto bene se stiamo in casa” trasmette.
Parlare di ritorno ad una normalità nella quale i lavoratori atipici, le partite iva non godendo del diritto alla malattia andavano puntualmente a lavorare anche se affetti da influenza (non per scarso senso civico, ma per necessità), diventando vettori di contagio, significa non aver compreso che quel tipo di normalità ha, in parte, generato il problema. E ancora, il termine privilegio utilizzato impropriamente come sinonimo di diritto, non rappresenta una semplice svista lessicale nel dibattito odierno. Definire privilegio la possibilità di lavorare da casa (quando in molti dei settori produttivi, allo stato attuale, questo è tecnicamente possibile), chiamare privilegi le garanzie sociali e i diritti dei lavoratori (disoccupazione, cassa integrazione, congedo straordinario), indicare come privilegio la possibilità di godere di uno stipendio dignitoso (spostando così l’attenzione di chi questa dignità non se la vede riconosciuta dal problema del suo diritto all’invidia sociale) è una precisa scelta che ha una sua finalità: evitare il più possibile il confronto – e la possibile conflittualità che ne deriva – sui temi chiave. Evitare la rivendicazione rispetto a un sistema più equo facendo sì che, nella lotta fra poveri, si consolidi la tendenza all’abbassamento dell’asticella (“Io non sono nelle tue condizioni, quindi tu devi abbassarti alle mie e non, piuttosto, chiedo di vedere un miglioramento delle mie sorti”) a tutto favore del mantenimento di uno status quo fatto, in questo caso sì davvero, di privilegi per pochissimi.
Perché il pubblico recepisce ed elabora le informazioni con il bagaglio di competenze di cui si parlava all’inizio, condito da un’evidente stanchezza che, dopo settimane d’isolamento sociale, incomincia a far sentire il suo peso anche rispetto alle nostre capacità interpretative. L’emotività, la reattività rispetto agli stimoli esterni è alterata e l’uso volutamente improprio di parole evocative diventa allora lo strumento perfetto per mantenere il sistema attuale. Per gestire, incanalare, dare un diverso peso specifico alle questioni. Le parole sono importanti: bisogna quindi pretendere il ritorno ad loro uso corretto e partire da qui per una revisione radicale – e possibilmente condivisa – dei percorsi di vita nei quali siamo stati inseriti fin ora.
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