Clima

Il Fossile, profeta del futuro

10 Aprile 2023

L’era industriale è costata all’umanità un cambiamento climatico profondo, che si sta verificando a un ritmo senza precedenti. Questo processo assomiglia ai rapidi cambiamenti che hanno interessato gli ecosistemi della Terra nel suo passato geologico e che – quindi – possono aiutarci a profetizzare e ad indirizzare le scelte future. O, per lo meno, a dirci perché determinate scelte possono avere conseguenze gravissime, basandoci sull’esperienza di milioni di anni di storia della Terra.

Negli ultimi 500 milioni di anni, il nostro pianeta ha vissuto almeno 5 periodi catastrofici, che hanno portato all’estinzione di oltre il 90% degli organismi che a quei tempi vivevano sulla Terra. Secondo la paleontologia, ovvero lo studio scientifico della preistoria, l’ultima “estinzione di massa” si è verificata 66 milioni di anni fa, segnando il confine tra il Cretaceo e il Paleocene, e cancellando circa il 76% di tutte le specie viventi sul pianeta, compresi i dinosauri non uccelli[1].

Come detto, la paleontologia studia il mondo vivente delle epoche passate nel tentativo di ricostruirne la storia, le leggi naturali e lo sviluppo. Uno dei compiti più importanti della scienza è quello di ricostruire le condizioni naturali in cui la vita si è sviluppata sulla Terra in vari momenti della sua storia, e lo fa attraverso lo studio dei resti di organismi e rocce, perché portano con sé i segni del tempo in cui sono stati prodotti, ed oggi noi sappiamo che il clima è un fattore importante che influenza la vita e la formazione di minerali e rocce[2]. Il mondo della paleontologia si arricchisce costantemente di nuove scoperte che ci aiutano a capire il presente ed a ragionare sul futuro.

Una minaccia per la biodiversità

Le specie animali sono l’una dipendente dall’altra per garantire l’esistenza e, quindi, la biodiversità[3]
Con l’aumento delle pressioni antropiche (l’effetto che la razza umana ha sul pianeta), la diversità, all’interno della biosfera (la parte abitabile della Terra, sul suolo ed in aria) sta diminuendo a un ritmo rapido e rappresenta il problema ambientale più grave che affrontiamo attualmente. In uno studio, intitolato “Integrare la biologia della conservazione e la paleobiologia per la gestione della biodiversità e degli ecosistemi in un mondo che cambia”, gli scienziati sottolineano l’importanza dei dati paleontologici del tempo profondo (più di 2 milioni di anni fa) per stabilire le priorità di conservazione delle specie e attuare misure di conservazione efficaci[4].

Gli scienziati suggeriscono che i dati paleontologici dei fossili abbiano un grande potere di prevedere il futuro e possono offrire consigli sulla conservazione della vita più di quanto attualmente noto, dandoci informazioni sulle ragioni che rendono le specie inclini all’estinzione a scomparire. Gli scienziati stanno confrontando gli eventi del tempo profondo con i processi indotti dall’uomo. Questo confronto può determinare la probabile risposta a lungo termine di specie ed ecosistemi a fattori di stress abiotici (stress non di origine animale come la siccità, la salinità, il gelo ed il caldo eccessivo). La velocità con cui sono scomparse o si sono modificate comunità di vegetali in seguito a un evento di estinzione di massa avvenuto 66 milioni di anni fa possono essere utilizzate, per esempio, per sviluppare un programma di riforestazione in regioni fortemente degradate dalla pressione antropica (modificazioni ambientali prodotte dalle attività umane).

Lo studio della riduzione delle dimensioni corporee nei mammiferi durante i periodi di alte temperature prolungate può essere utilizzato per prevedere i cambiamenti nella composizione e nella funzione delle future comunità animali in risposta ai cambiamenti climatici. La comprensione dei meccanismi di estinzione degli squali pelagici all’inizio del Miocene, ad esempio, potrebbe rivelare i fattori abiotici che oggi causano il declino degli squali in oceano aperto. L’analisi del tempo profondo rappresenta quindi una preziosa fonte di informazioni per prevedere la risposta delle specie al mutare delle condizioni ambientali. Tuttavia, è necessaria una certa cautela nell’interpretare le conclusioni, poiché esse non possono tenere conto di tutti gli aspetti della nostra risposta naturale[5].

Sulle orme dei dinosauri

Schema temporale dell’età della Terra[6]
In precedenza si riteneva che il clima caldo e piatto del primo Mesozoico fosse l’ambiente più adatto per i dinosauri. Ma una nuova ricerca dimostra che essi si erano perfettamente adattati alle condizioni fredde e sopravvivevano con successo agli inverni gelidi, fattore decisivo per la loro sopravvivenza nel tardo Triassico. Secondo molti scienziati, l’evento di estinzione di massa, che ha spazzato via più di tre quarti di tutte le specie terrestri e marine, compresi i crostacei, i coralli e tutti i grandi rettili, è stato innescato più tardi da diffuse eruzioni vulcaniche, risultato dei movimenti delle placche tettoniche[7].

Inoltre, le eruzioni potrebbero aver innescato un’esplosione di anidride carbonica nell’atmosfera, che avrebbe innalzato i suoi livelli già proibitivi, causando picchi di temperatura mortali sulla terraferma e rendendo le acque oceaniche troppo acide per la sopravvivenza di molte creature. Gli autori del nuovo studio suggeriscono che le fasi più intense delle eruzioni hanno emesso aerosol di zolfo che hanno riflesso così tanto la luce solare da provocare ripetuti inverni vulcanici globali che potevano durare un decennio o più; anche i tropici potevano sperimentare gelate prolungate. Ciò uccideva i rettili non isolati, ma i dinosauri isolati e adattati al freddo erano in grado di sopravvivere.

La resistenza al freddo è dovuta alla probabile presenza di protoperle (precursori delle piume degli uccelli moderni, formazioni cutanee cornee che presumibilmente alcuni dinosauri avevano) in molti membri della specie, oltre a un sistema a sangue caldo e a un metabolismo elevato, ha permesso ai dinosauri di sopravvivere al buio e al freddo degli inverni vulcanici e di espandersi fino a dominare la Terra per i successivi 135 milioni di anni[8].

La ricerca sui cambiamenti climatici contemporanei si concentra sul fenomeno del riscaldamento globale, soprattutto nelle regioni polari. Gli scienziati stanno cercando di simulare la vita in un mondo più caldo e di mitigarne le possibili conseguenze. I cambiamenti sono molto complicati e la ricerca sull’antico Artico può essere molto utile, soprattutto per capire come le precipitazioni e la temperatura influenzino le popolazioni di vertebrati[9].

Un team di scienziati guidati da Anthony Fiorillo, paleontologo della Southern Methodist University di Dallas (Texas), ha condotto uno studio sul periodo cretaceo della regione settentrionale del continente americano. L’importanza del periodo e del terreno è data dal fatto che all’epoca la Terra si trovava in uno stato di riduzione delle aree abitabili e ci permette di modellare ciò che potremmo vedere se il riscaldamento globale continuasse e il clima diventasse altrettanto caldo e umido come nel Cretaceo[10].

Paralleli tra eventi profondi e cambiamenti antropici[11]
Gli scienziati hanno identificato due parametri climatici cruciali ed hanno dimostrato il loro ruolo nel modellare le popolazioni animali e vegetali dell’Alaska artica, utilizzando due famiglie di dinosauri erbivori (Hadrosauridae e Ceratopsidae), che erano cruciali per la salute dell’ecosistema in cui vivevano. Lo studio suggerisce che le precipitazioni medie annuali hanno avuto un ruolo più importante nel determinare la distribuzione dei dinosauri erbivori rispetto alla temperatura media annuale[12].

Lo studio ha esaminato la vita animale e vegetale e le antiche condizioni climatiche dell’ecosistema terrestre dell’Alaska. È impossibile analizzare il tasso di cambiamento, che potrebbe essere stato molto diverso durante il Cretaceo, ma è possibile ricostruire l’aspetto di una costa priva di ghiacci e vedere come i fiumi e le pianure alluvionali risponderebbero allo scioglimento primaverile delle montagne, qualora non si congelasse tutto, oltre a osservare la distribuzione di piante e animali[13].

La biodiversità è sensibile a qualsiasi cambiamento climatico e al momento si trova in uno stato critico. Data la comunanza di eventi come gli eventi ipertermici, la perdita di habitat, l’inquinamento, sorge spontanea la domanda: il rischio di estinzione delle specie durante le catastrofi di massa del passato può aiutarci nel tentare delle previsioni sull’attuale crisi della biodiversità? Lo studio, pubblicato dalla Royal Society, si basa su modello di rischio di estinzione che utilizza un algoritmo di apprendimento automatico basato su una serie di fossili marini che testimoniano le estinzioni del tardo Permiano, del tardo Triassico e del tardo Cretaceo (252, 200 e 66 milioni di anni fa)[14].

Vale la pena notare che le estinzioni di massa del tardo Permiano e del Triassico sono associate all’eruzione di grandi regioni ignee (zone caratterizzate da accumuli estremamente grandi di rocce magmatiche) che hanno portato a cambiamenti a cascata nell’ambiente, come il riscaldamento dovuto alle emissioni di gas serra, la deossigenazione e l’acidificazione degli oceani. Il periodo Cretaceo non è così chiaro, in quanto le massicce eruzioni vulcaniche hanno coinciso con l’impatto di un grande meteorite sulla Terra, che ha portato a uno stress termico, sotto forma di un impulso di riscaldamento regionale estremo intorno al sito dell’impatto e di un raffreddamento climatico globale estremo a breve termine (dieci anni), seguito da acidificazione degli oceani e una riduzione della crescita della materia organica su tempi più lunghi. In altre parole, non si può dire che le condizioni iniziali siano uguali a quelle che conosciamo con più certezza[15].

L’analisi mostra che, sebbene vi sia una certa somiglianza nei modelli di selettività dell’estinzione tra le crisi antiche, la selettività non è costante, con conseguenti scarse prestazioni predittive. Come nel caso della meteorologia, possiamo azzardare un’ipotesi, ma non possiamo predire con certezza la realtà.

Inoltre, la difficoltà di previsione è legata alle differenze nel modo in cui le minacce alla biodiversità si sono manifestate nel passato geologico, rispetto a come si manifestano oggi. Ad esempio, l’inquinamento antropico oggi ha una scala molto più ampia e comprende sostanze sintetiche, mentre l’introduzione (la rimozione deliberata o accidentale da parte dell’uomo di membri del mondo vivente al di fuori dei loro habitat naturali) è probabile che si verifichi su una scala spaziale molto più ampia e a un ritmo molto più rapido. Le dimensioni dell’area geografica e la ricchezza di specie al suo interno offrono indubbiamente vantaggi in termini di sopravvivenza, ma sono meno determinanti di fronte alle estinzioni di massa[16].

L’effetto della deriva dei continenti

Due miliardi di anni fa un asteroide colpisce la Terra modificando l’equilibrio ambientale per milioni di anni[17]
All’inizio della storia della Terra, l’ossigeno atmosferico dominava sull’ossigeno disciolto negli oceani. Tuttavia, un team internazionale di scienziati offre oggi un punto di vista alternativo di questa ricostruzione, sottolineando l’importanza del movimento orizzontale delle placche tettoniche e la distribuzione non uniforme dell’ossigeno disciolto in superficie e sul fondo dell’oceano nella diffusione dell’ossigeno nel suolo, nel mare e nell’aria[18].

Lo studio dimostra che il contenuto di ossigeno negli oceani del mondo è instabile e fluttua a intervalli di diverse migliaia di anni. Presumibilmente, tali fluttuazioni potrebbero giocare un ruolo chiave nel forte aumento della biodiversità, come è accaduto all’inizio del Paleozoico, quando c’è stata la cosiddetta esplosione cambriana (ovvero il grandissimo aumento di ritrovamenti di resti fossili di esseri viventi nei depositi del primo periodo cambriano, che è datato all’inizio del Paleozoico, circa 538,8 milioni di anni fa). La colpa di questa instabilità potrebbe essere il movimento dei continenti[19].

Sebbene la deriva dei continenti sembri lenta, impercettibile e apparentemente incapace di provocare cambiamenti drammatici, essa influisce direttamente sul movimento delle acque oceaniche. Le acque superficiali diventano più fredde e pesanti man mano che si avvicinano ai poli e sprofondano verso il basso, insieme all’ossigeno che contengono, stimolando lo sviluppo di un bioma (uno specifico ambiente terrestre caratterizzato da una particolare vegetazione) e da un particolare clima sul fondo. La forza delle correnti ascensionali solleva la materia organica in superficie, innescando la crescita del plancton. Questo ciclo è un fattore chiave nel plasmare la diversità e la distribuzione della vita marina[20].

Secondo lo studio, questo processo ciclico potrebbe essere interrotto o addirittura fermato del tutto, con un impatto notevole sull’evoluzione della vita marina su scala globale, se l’impatto dell’umanità sul pianeta dovesse dimostrarsi troppo pesante. Lo studio dell’Università di Sydney è stato progettato per determinare l’impatto del riscaldamento globale sul tasso di circolazione nell’oceano profondo – il cosiddetto tasso del nastro trasportatore oceanico (ovvero le correnti sottomarine costanti). Gli scienziati sono convinti che questo sia molto importante per prevedere la dinamica della temperatura degli oceani e della dissoluzione dell’anidride carbonica.

Finora, circa un quarto dell’anidride carbonica creata dall’attività umana (e più del 90% del calore in eccesso ad essa associato) sono stati assorbiti dall’oceano senza grossi problemi[21]. I piccoli organismi alla deriva nell’acqua utilizzano l’anidride carbonica disciolta per costruire scheletri e gusci. Al termine del ciclo vitale, gli organismi cadono sul fondo, portando con sé il carbonio raccolto durante la loro vita. È così che sul fondo dell’oceano, costantemente, si accumula una massa di sedimenti, una riserva globale di carbonio[22].

Il cosiddetto nastro trasportatore oceanico, grazie al quale oggi, usando gli strumenti della paleontologia e della geologia, si possono prevedere i grandi mutamenti climatici[23]
Grazie alla documentazione geologica sul fondo dell’oceano, alla conoscenza della sua forma e all’analisi del ciclo di sedimentazione del fondo, gli scienziati sono riusciti a capire quando e dove la sedimentazione è stata interrotta. Gli scienziati hanno concluso che la sedimentazione è stata praticamente ininterrotta per 13 milioni di anni, in corrispondenza di un calo della temperatura media del pianeta e della crescita delle calotte di ghiaccio sulla terraferma. Ciò suggerisce che il nastro trasportatore degli oceani ha gradualmente rallentato, rispetto al periodo in cui le temperature sulla Terra erano da tre a quattro gradi più alte di oggi e i flussi oceanici profondi erano molto più veloci[24].

Studi indipendenti, che utilizzano dati satellitari, mostrano che la circolazione oceanica su larga scala e i vortici oceanici sono diventati più attivi negli ultimi due o tre decenni di riscaldamento globale. Lo dimostra anche uno studio sui fondali marini intorno alla Nuova Zelanda, che ha mostrato come la produzione di conchiglie marine conservate sotto forma di sedimenti carbonatici fosse maggiore durante gli antichi periodi di riscaldamento climatico, nonostante l’acidificazione degli oceani in quel periodo. La combinazione di questi risultati porta alla conclusione che gli oceani più caldi non solo hanno una circolazione profonda più attiva, ma potenzialmente immagazzinano il carbonio in modo più efficiente[25]. Ma per esserne certi è necessaria un’analisi più completa della storia geologica dei bacini oceanici.

Un’altra interessante proposta è stata avanzata da un team internazionale di scienziati guidato dai ricercatori della Trinity College School of Science di Dublino. Grazie all’analisi chimica di antichi sedimenti di fango provenienti da un pozzo di 1,5 km di profondità in Galles, gli scienziati sono riusciti a collegare due eventi chiave che si sono verificati circa 183 milioni di anni fa (il periodo Toar) e che hanno portato a un repentino riscaldamento del clima terrestre e a conseguenti cambiamenti globali dell’ecosistema. Questo periodo è caratterizzato da un’attività vulcanica catastrofica, le cosiddette Grandi Province di Eruzione (LIP), e dalle relative emissioni di gas serra nell’emisfero meridionale, dove oggi si trovano l’Africa meridionale, l’Antartide e l’Australia[26].

I modelli globali per la ricostruzione delle placche tettoniche e del loro movimento, così come le concentrazioni di mercurio nelle rocce sedimentarie del Basso Toro hanno aiutato il team a scoprire un processo geologico fondamentale. Quando la velocità delle placche continentali rallenta fino a raggiungere quasi lo zero, a causa di un cambiamento di direzione, i flussi di magma caldo che si muovono dalla base del mantello, vicino al nucleo della Terra, possono salire in superficie, causando grandi eruzioni vulcaniche e le relative perturbazioni climatiche ed estinzioni di massa. In altre parole, un normale tasso di movimento delle placche continentali di pochi centimetri all’anno impedisce efficacemente al magma di penetrare nella crosta continentale della Terra[27].

Aggiornare la paleontologia

Un modello che collega i cambiamenti nel movimento delle placche al magmatismo di superficie[28]
Per comprendere i processi di formazione del clima del passato ed essere in grado di prevedere i cambiamenti futuri e mitigarne le conseguenze, è essenziale un approccio integrato di tutte le discipline scientifiche. In questo contesto, la paleontologia può offrire una prospettiva unica sui cambiamenti biologici del passato. In particolare, la paleontologia consente di valutare sistematicamente gli effetti dei cambiamenti climatici del passato e i parallelismi con i cambiamenti attuali, ad esempio prevedendo la risposta dei biota (il complesso degli organismi vegetali e animali che vivono in un determinato ecosistema) ai cambiamenti climatici, aiutando a prevedere gli spostamenti delle specie, le estinzioni locali, i cambiamenti di bioma, e altro ancora.

Ciò nonostante, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) ritiene che la paleontologia non sia attualmente in grado di fornire informazioni rilevanti per la determinazione delle politiche sugli impatti del cambiamento climatico. Secondo gli esperti di clima, la paleontologia guarda a scale temporali molto più lunghe di quelle considerate rilevanti nel contesto del lavoro delle organizzazioni per la protezione del clima.

Utilizzando l’esempio degli studi sulle estinzioni di massa delle specie in presenza di vari gradi di riscaldamento, il gruppo scientifico che agisce per conto delle Nazioni Unite ritiene che migliorare l’affidabilità delle affermazioni e quantificare le perdite previste dovrebbe essere una priorità per la ricerca dei paleontologi. Uno degli obiettivi principali del gruppo di lavoro dell’IPCC è quello di identificare la vulnerabilità dei diversi sistemi ai cambiamenti climatici, mentre la maggior parte della ricerca paleontologica si è finora concentrata su un singolo aspetto della vulnerabilità piuttosto che indagare la questione in modo più completo.

Secondo l’IPCC, il contributo della paleontologia alla ricerca sull’impatto climatico rilevante per le politiche potrebbe essere potenziato da una ricerca più mirata, da una considerazione esplicita della scala temporale e soprattutto da una migliore struttura e rendicontazione. La documentazione fossile è indubbiamente di grande importanza per la comprensione dei meccanismi del ciclo vitale del nostro pianeta, grazie alla conoscenza di lunghe serie temporali di cambiamenti ambientali che possono aiutare gli scienziati a prevedere le future risposte ambientali[29].

Ma vale la pena notare che la maggior parte degli studi e delle conclusioni sono indiretti e ipotetici, rapporti costellati dalle parole: probabile, possibile, previsto, prevedibile, probabile, probabile. Il mondo che ci circonda non è un sistema chiuso e prevedibile, ma un grande organismo vivente che si trova costantemente in uno stato attivo e dinamico, dove le previsioni rimangono previsioni. La strada da percorrere è ancora lunghissima.

[1] https://www.nationalgeographic.com/science/article/mass-extinction
[2] https://postnauka.ru/faq/68269
[3] https://www.biologyonline.com/dictionary/biodiversity
[4] https://www.frontiersin.org/research-topics/23453/integrating-conservation-biology-and-paleobiology-to-manage-biodiversity-and-ecosystems-in-a-changing-world#articles
[5] https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fevo.2022.959364/full
[6] https://www.geologyin.com/2016/12/10-interesting-facts-about-geological.html
[7] https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.abo6342
[8] https://news.climate.columbia.edu/2022/07/01/dinosaurs-took-over-amid-ice-not-warmth-says-a-new-study-of-ancient-mass-extinction/
[9] https://www.smithsonianmag.com/science-nature/paleontologists-are-still-puzzling-over-why-dinosaurs-ran-hot-180980307/
[10] https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.abo6342
[11] https://www.zora.uzh.ch/id/eprint/224628/1/ZORA_pdf.pdf
[12] https://www.mdpi.com/2076-3263/12/4/161
[13] https://www.sciencedaily.com/releases/2022/05/220502170938.htm
[14] https://www.smu.edu/News/Research/Cretaceous-dinosaurs-in-Alaska
[15] https://www.sciencedaily.com/releases/2022/05/220502170938.htm
[16] https://royalsocietypublishing.org/doi/10.1098/rsos.221507#d1e1636
[17] https://www.meteoweb.eu/2020/01/catastrofe-modificato-clima-terra/1377745/
[18] https://www.nature.com/articles/s41586-022-05018-z
[19] https://naked-science.ru/article/geology/plates-rule-o2
[20] https://naked-science.ru/article/geology/plates-rule-o2
[21] https://naked-science.ru/article/climate/poteplenie-uskoryaet-okeanicheskij-konvejer?utm_source=inarticle&utm_medium=inarticle&utm_campaign=inarticle
[22] https://naked-science.ru/article/climate/poteplenie-uskoryaet-okeanicheskij-konvejer?utm_source=inarticle&utm_medium=inarticle&utm_campaign=inarticle
[23] https://www.focus.it/scienza/scienze/grande-nastro-trasportatore-oceanico-cambiamenti-climatici
[24] https://agupubs.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1029/2021PA004294
[25] https://phys.org/news/2022-02-oceans-carbon-trees-warmer-future.html
[26] https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.abo0866
[27] https://www.sciencedaily.com/releases/2022/09/220909160317.htm
[28] https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.abo0866
[29] https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.2201926119

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