Scienze

Il calcio e la sintassi dell’immaginario

8 Marzo 2019

Il tiro arrivò a sinistra, el Gato Dìaz si buttò nella stessa direzione con un’eleganza e una sicurezza che non mostro mai più. Constante Gauna alzò gli occhi al cielo e cominciò a piangere. Noi saltammo giù dal muretto e andammo a guardare da vicino Dìaz, il vecchio che rimirava il pallone che aveva tra le mani come se avesse estratto la pallina della lotteria.

Osvaldo Soriano, Il rigore più lungo del mondo in Fùtbol

Nel nostro paese, come in molti altri, di lingua madre calcistica (Europa e Sudamerica) si parla (e si vive) il pallone con attenzione liturgica, come una fede potente. Il calcio non è una metafora, è la realtà, è la vita.

Impariamo sin da piccoli la sintassi di quella che sarà la lingua per scrivere e parlare del nostro gioco e, al contempo, riceviamo un’educazione sentimentale che, esattamente, come accade quando impariamo a parlare, a mangiare, a camminare, a scrivere, a andare in bicicletta, a dare il primo bacio ci entra profondamente nell’intimo.
Forma il nostro carattere, collabora a costruire il nostro immaginario e, cosa più importante, ci accompagnerà per sempre.

L’Italia, dagli inizi del novecento a oggi, potrebbe essere raccontata senza parlare del calcio?
Non credo, il punto dolente è che, forse, questo racconto (narrazione o storytelling sono termini più contemporanei e un po’ più hipster e metrosexual, ma qui stiamo parlando di un’altra cosa) è dapprima appartenuto alle élite culturali (alla Umberto Saba per intenderci, grande poeta) o a scrittori come Gianni Brera che, con invenzioni stilistiche di cui si compiaceva, ha inventato un linguaggio o ancora Giovanni Arpino; successivamente nessuno è stato in grado di affrontarla in modo popolare. Il cinema ci ha propinato i vari allenatori nel pallone, Paulo Roberto Cotequinho, Mezzo destro e mezzo sinistro etc.., mai delle storie.
Pochi, in Italia, hanno raccontato (che è diverso dallo scrivere la cronaca di una partita) il calcio al popolo o hanno provato a raccontare il popolo del calcio.
Certo ci sono stati il film di Pupi Avati All’ultimo minuto e il romanzo I Furiosi di Nanni Balestrini più qualche altro, ma sono rimasti delle eccezioni.

All’estero ci sono riusciti molto meglio di noi, interpretando lo sport come una parte integrante della propria cultura e non come un sottoprodotto per ebeti ignoranti, basti pensare ai film americani (Major League, Il Paradiso può attendere, Ogni maledetta domenica etc.. ), a Nick Hornby o agli scrittori sudamericani per i quali calcio, calciatori e popolo sono quasi un’unica creatura: “La gente a Napoli mi ha sempre amato perché io sono stato dalla parte dei deboli.” (Maradona) oppure pensiamo all’introduzione di Cuentos de futbol di Jorge Valdano (Campione del mondo 1986) in cui racconta dell’intellettuale che ripugnava il calcio fino a quando non glielo hanno fatto provare o, ancora, alla storia del Gato Dìaz il protagonista de Il rigore più lungo del mondo di Osvaldo Soriano.
Tuttavia, questo magma continuo e informe di notizie, storie, partite viste, sentite, raccontate, vite di giocatori vincenti o tristi, sconfitte, sofferenze, gioia, vittorie, recriminazioni, discussioni ha costruito un codice, una sintassi che permette a ognuno di noi, appassionati, rimbambiti, malati, drogati, tifosi e seguaci della palla, di parlare una lingua, e di condividere una cultura, comune.
Tutti ci capiamo, forse perché sono sentimenti elementari, vissuti sulla pelle, che ci fanno sentire come un fratello e a casa se vediamo qualcuno con i colori che amiamo e, allo stesso tempo, che ci permettono di accendere dispute (ovviamente dialettiche e nel limite di quello che è il rispetto dell’essere umano. Altri comportamenti non c’entrano con la passione, sono reati e chi li commette è un delinquente) con chi sostiene colori e idee diverse dalle nostre.
“Dimmi cos’è che ci fa sentire uniti anche se non ci conosciamo” (A. Venditti)

Questa sintassi è il primo tassello del nostro processo di apprendimento, cresciamo e l’immaginario si popola. Cominciamo a vivere il calcio in prima persona sin da bambini: la prima partita in tv, la prima partita allo stadio dove ci vai magari tenendo la mano di tuo padre – un vero rito di iniziazione -, la prima sciarpa, la prima partita da solo, la prima trasferta, la prima finale, il primo selfie gli amici con il campo come sfondo, il like sul profilo del giocatore e così via. Pensiamo a Kobe Bryant, non come star NBA, ma come bambino che arriva in Italia, da un mondo esterno, con suo padre, cresce in questa cultura e diventa milanista.
Tutto questo concorre a formare il nostro immaginario e la sua connessione con il nostro intimo è diretta.
Per questo, quando c’è una partita in cui è impegnata la nostra squadra, mettiamo in gioco anche noi stessi, è una parte della nostra anima a essere toccata. E’ difficile pensare a divertirsi, a vivere la gara come un evento di intrattenimento. Alan Durban, Allenatore dello Stoke City citato da Nick Hornby in Febbre a 90, fu molto chiaro “Se volete divertirvi andate a vedere i pagliacci!”. Il tifoso vive in modo viscerale e amplificato tutte le sensazioni derivanti dal risultato finale e da come esso matura.
Sono rarissime, nella storia di questo sport, le squadre che sono riuscite a coniugare meraviglia estetica e trionfi.
Il calcio è un’autostrada, una linea retta che arriva dritta alla nostra anima, al nostro cervello, che ci fa scoprire vulnerabili alle passioni, che ci fa sognare ma, come ha scritto, Kipling non dobbiamo fare del sogno il nostro padrone, così come non lo dobbiamo fare del calcio. Tutti noi sappiamo benissimo quanto sia complicata la gestione e la convivenza con questo demone.
La continua guerra interiore che combattiamo per tenere a bada i due impostori, ovvero il Trionfo e la Rovina (sempre Kipling), è la genesi della nostra passione.

Il gioco del calcio è sempre più descritto e sempre meno raccontato e così si finisce per dimenticare qual è il suo rapporto con la felicità.

“Non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio.” (Albert Camus).

Dedicato a tutti quelli che amano il calcio indipendentemente dai colori.

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