Scienze

felicità e resilienza: due mondi lontanissimi

15 Luglio 2017

Ognuno ha provato/trovato la sua felicità, si spera, almeno in qualche momento della vita.
Tutti quindi sanno di cosa stiamo parlando. La felicità non è misurabile nella sua intensità, la felicità è un sentimento umano. Soprattutto non è frazionabile, o c’è o non c’è, è molto semplice.
E’ l’opposto della resilienza, un concetto mutuato dalla scienza dei materiali e applicato alla vita delle persone, alle aziende, con l’idea, niciana, che tutto quello che non uccide rafforza.
Jefferson, Franklin e gli altri padri della patria, nella Dichiarazione di Indipendenza Americana hanno inserito il diritto alla perseguimento della felicità, non della resilienza.
I ragazzi di Philadelphia erano democratici, illuminati e saggi non erano guru da lezione motivazionale sul palco di qualche palasport (avete presente Tom Cruise in Magnolia?).
Avevano ben chiaro quali fossero i fondamenti della democrazia e della convivenza tra gli uomini.
Che poi ognuno riesca veramente a trovarla, la felicità, anche se la persegue assiduamente, non si è ancora riusciti a capirlo. Però, intanto bisogna iniziare a perseguirla, è il viaggio che conta non la meta.

Sulla resilienza si è costruita, invece, molta della retorica di questi anni di crisi economica, passato il periodo del racconto della sinergia, della moltiplicazione delle forze, c’era bisogno di un’altra parola d’ordine ed ecco arrivare in nostro soccorso questo bel concetto.
Peccato che gli uomini siano fatti di sangue e carne, di cuore e cervello non di qualche metallo o altro materiale modificabile: resiliente.

Le narrazioni moderne (quelle del marketing, dei social media, della politica, della sfera pubblica), come nelle favole, prevedono solo il lieto fine. E la resilienza è un ottimo surrogato.

La felicità può arrivare anche in modo inaspettato e donarci il suo benefico effetto, così le storie cambiano verso per un minuto o per sempre; se invece un racconto non finisce bene ma finisce e basta, la resilienza si sgonfia come un copertone bucato.

E’ l’esperienza a far comprendere di cosa stiamo parlando, la resilienza non è altro che il concetto darwiniano che chi tiene più duro ce la farà. Chi invece, nonostante la lotta, non ce la fa a superare un momento difficile o un fallimento, beh non è resiliente e quindi che vuole?
La resilienza è il tentativo razionale di nascondere la sfortuna, è l’intento moralistico del non hai fatto abbastanza. E’ la negazione del fatto che, purtroppo, il caso, il destino, dio, il karma -ognuno lo pensi come crede- esistano. E, anzi, ci illudiamo di essere noi stessi, sino in fondo, gli artefici del nostro destino.
Non è così. Ho le prove.

La felicità, al contrario, ha molto a che fare con la fortuna e ha un linguaggio elementare, immediato, emotivo: la madre che sorride al figlio appena partorito, è un’immagine universale.

L’altro lato della felicità è l’infelicità, ed è quel sentimento che sopravviene nei momenti bui, cupi e tremendi dell’esistenza umana.
L’esempio classico, quello per cui Umberto Veronesi si era chiesto se dio esiste, è quello dei malati di cancro. Sono resilienti solo quelli che sopravvivono alle terapie, e possono godersi la felicità? E per questo essere degni di ammirazione e di essere narrati? Secondo me no, non funziona così.
I genitori delle pediatrie oncologiche che vedono i propri figli soffrire, che li vedono spegnersi perché non sono riusciti a sopravvivere, seppure hanno lottato di più di chi ce l’ha fatta, sono meno resilienti?
Certamente sono più infelici e sfortunati.

“Le parole più belle del mondo non sono “Ti amo” ma… “È benigno”” (Woody Allen), o parafransandolo, la parola più bella per un malato di cancro è remissione completa.
Per trovare la felicità, non ci vuole resilienza ma culo.

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