Scienze

Essere dottorandi (e quindi intellettuali) ai tempi del coronavirus

3 Aprile 2020

Essere una dottoranda, in questo preciso momento storico, significa probabilmente in termini quantitativi fare parte di una misera percentuale rispetto al resto della popolazione. Dal punto di vista politico, invece, veniamo spesso descritti come “il futuro dell’accademia”, come coloro che un domani occuperanno, con la loro presenza e il loro studio matto e disperatissimo, le sedi in cui avviene la produzione del pensiero. Poco importa se dal punto di vista burocratico e sociale veniamo trattati alla stregua di un ibrido tra studente e ricercatore, tra individuo in formazione e lavoratore, senza beneficiare per davvero dei diritti di nessuna delle due categorie: abbiamo una borsa di dottorato che non arriva per un soffio al minimale contributivo INPS e, al tempo stesso, ci viene richiesto di impiegare il nostro tempo “pensando” e producendo articoli, nel tentativo di costruirci già da subito un curriculum che sia valido secondo i criteri dell’Anvur. Siete dei privilegiati, ci dicono, perché avete tre anni di tempo per portare avanti la vostra ricerca: vero. Peccato che per molti quei tre anni saranno probabilmente l’unica parentesi di vita in cui questo gli sarà possibile, prima di doversi catapultare a cercare un lavoro qualsiasi per poter campare, nel tentativo di riguadagnarsi agli occhi della propria famiglia e della società quel “tempo perso”.

Ci viene richiesto di pensare, insomma. O meglio, di produrre un nostro pensiero. Passiamo quei tre privilegiatissimi anni a cercare di dargli una struttura, a quel pensiero, a costruirci una presenza accademica e non, a dare spessore a chi siamo e a chi vorremmo diventare nel nostro piccolo angolo di studi e di mondo, mantenendo sempre viva quell’angoscia di non riuscire a farcela. Passiamo le giornate “sul campo” (o in laboratorio), a leggere, a scrivere, a chiederci se ciò che stiamo facendo abbia davvero un senso, possa davvero essere utile per qualcuno. Poi arriva una pandemia, ci guardiamo intorno (per lo meno noi dottorandi in scienze sociali) e proviamo quel fastidioso senso di frustrazione nel renderci conto che attorno a noi tutti hanno qualcosa da dire: chi “ce l’ha fatta” e ha vinto una Marie Curie, o comunque è riuscito ad andare avanti con la ricerca, sembra quasi che sia anche perché abbia una parola da dire su tutto, mentre noi no. Riusciamo a malapena a sentirci “sicuri” nel padroneggiare il nostro tema di ricerca, mentre attorno a noi i nostri colleghi o professori brulicano di pensieri, parole, iniziative ed eventi in diretta streaming. Poco importa se quelle stesse iniziative difficilmente superano i confini del proprio account Facebook rivelandosi genuinamente divulgative soltanto a parole: l’importante è parlarne. E così, mentre gruppi di scienziati STEM si mettono per davvero insieme a ragionare sui possibili sviluppi futuri del virus e su come rendere le loro idee incisive, scrivendo lettere a Conte e occupando spazio sui principali mezzi di comunicazione, altri si accontentano delle petizioni su change.org e vivono quel bisogno di parlare in maniera assolutamente autistica, senza porsi il problema di quale audience si voglia raggiungere, di come far sì che quelle riflessioni facciano effettivamente breccia nell’animo di chi non appartiene già alla nostra cerchia ristretta.

Molti di noi dottorandi ancora non hanno fatto i conti con il sentirsi “intellettuali” e, anzi, tendiamo a sentirci del tutto inadeguati di fronte a un appellativo simile. Ma ci viene velatamente fatto capire che, in mancanza di questa consapevolezza, forse non siamo così degni di ciò che vorremmo fare. E quindi eccolo che arriva: il senso di colpa. Chiunque produca post, riflessioni, pensieri, in questo momento sta svolgendo al meglio il suo lavoro. Chiunque non dovesse riuscirci – vuoi perché ha bisogno dei suoi tempi per farlo, vuoi perché fatica a pensare in una situazione simile, vuoi perché è sopraffatto da altri pensieri e preoccupazioni in vista della scadenza dell’erogazione della sua borsa, vuoi perché non è detto che si debba necessariamente avere un’opinione su tutto ciò che accade in questo mondo – soffrirebbe di una grave “afasia da stordimento”. Un vero orrore, agli occhi di chi in questo momento vorrebbe cambiare il mondo a suon di post sui social network.

Ma l’assurdo, l’orrore vero, è che ci venga implicitamente richiesto di essere produttivi anche durante una pandemia globale. Il capitalismo resiste e persiste, inevitabilmente: dobbiamo essere produttivi. “Beato tu che lavori, io sono in cassa integrazione”. Di nuovo, il lavoro come privilegio e non come diritto. Sui social, che in questo momento ci forniscono il primario contatto con la comunità, più che mai straborda la malattia del secolo: il narcisismo, con annessi deliri di onnipotenza. Non ci viene chiesto come stiamo, che cosa eventualmente pensiamo della situazione, a meno che non siamo noi stessi a urlarlo ai quattro venti, seppure virtualmente. Ci sentiamo eccessivamente responsabilizzati e al tempo stesso infantilizzati, esattamente come i bambini che sono letteralmente bombardati di stimoli: i compiti, le lezioni, le schede, il video su come fare il lavoretto, su come fare una torta, su come fare la pasta di sale. Come se la noia fosse un nemico orribile da combattere, quando invece la noia è preziosissima, perché consente di allenare l’immaginazione, quella pratica che, come diceva Arjun Appadurai, precede l’azione e dunque allena il pensiero. Noia che non a caso viene scacciata sin dall’infanzia: i bambini devono essere stimolati, stimolati, stimolati. Ci troviamo poi preadolescenti e adolescenti che la noia non la sappiamo gestire, e allora sì che diventa dannosa, perché ormai è tardi per imparare a trasformarla in pensiero. Questa noia che viene sostituita dal dover essere produttivi, sin da piccoli. Fare, fare, fare.

Quando è iniziata la quarantena ho sinceramente creduto potesse essere un’occasione per pensare. Per scrivere la mia tesi, per dire qualcosa di intelligente sulla situazione attuale. Ma pensare è un esercizio complesso, che richiede molto tempo. Piuttosto mi sono trovata catapultata, di nuovo, in misura anche peggiore, in tempi dettati sempre da altri. In più, chi non parla, chi non dice, chi non si mette in vetrina sui social, sugli articoli, è visto come uno che non ha niente da dire. Una condizione permanente ormai, visto che nel mondo della produzione e divulgazione culturale e scientifica chi non espone continuamente il proprio pensiero non è ritenuto valido, ma la quarantena l’ha acuita fino a farla diventare insopportabile. Non abbiamo il diritto, nemmeno durante una pandemia globale, di tacere, di pretendere un po’ di silenzio, di avere il tempo e il modo di cogliere l’istante fenomenologico e iniziare la ricerca del senso di quell’istante.

Susan Sontag, nel suo celebre libro “On photography”, scriveva che l’ossessione di molti turisti in vacanza di scattare centinaia e centinaia di fotografie, immortalando ogni singolo momento, sia l’ennesima conseguenza di quel bisogno di sentirsi costantemente produttivi che induce il sistema capitalistico e che abbiamo ormai naturalizzato: più foto riusciamo a scattare, più quella vacanza potrà considerarsi produttiva e, di conseguenza, degna di esser stata vissuta. Se ciò vi fa sentire meglio o se effettivamente credete possa essere utile in questo momento, continuate pure a “scattare tutte le foto” che volete, vale a dire a produrre tutti i pensieri che ritenete opportuni, ci mancherebbe altro. Solo concedeteci almeno il lusso di non farci sentire in colpa se non lo facciamo, una volta tanto.

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