Salute mentale
È ancora valido il detto parla come mangi?
“Ne l’ordine ch’io dico sono accline
Tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti”
In un mondo iperconnesso, senza frontiere in cui i giovani viaggiano con facilità, incontrano altre culture e modi di pensare, in cui si confrontano con i loro coetanei stando seduti in camera loro, in un mondo in cui lo smart working consente di proiettarsi nel luogo di lavoro pur stando fermi e in cui una rapida realizzazione di vaccini hanno consentito in temi brevi di arrestare la mortalità di una pandemia, si attraversa un terreno minato quando si parla di donna. Si è precipitati nel medioevo, epoca in cui per dichiararsi bisognava utilizzare la donna specchio perché non la si offendesse con versi troppo audaci e che lasciassero trasparire un vago sentimento.
E così è capitato che il professor Barbero, nonostante abbia il merito non solo di essere un grande conoscitore della sua disciplina, ma di aver reso la storia simpatica col suo modo pop di spiegarla, viene attaccato per aver avanzato l’ipotesi che la difficoltà delle donne a emergere in certi campi è dovuta forse alla mancanza “di aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi”.
Attaccare un’affermazione discutibile e retrograda non è certamente il modo migliore per convincere il professor Barbero che la sua visione è fortemente anacronistica.
Le donne riescono molto meglio in tanti campi rispetto agli uomini, si pensi ad esempio a tutte quelle professioni che richiedono doti umanitarie, quali il medico, l’infermiera, l’insegnante, professioni in cui non c’è bisogno di aggressività, semmai di comprensione, partecipazione, compenetrazione, doti che storicamente la donna ha sviluppato dovendo allevare e accudire i figli. In molti campi professionali, ormai, si è capito che per ottenere risultati, non bisogna utilizzare la leadership per schiacciare chi ricopre un ruolo inferiore, ma che il team building, la cooperazione, il mettere insieme energie creative, lavorare insieme per raggiungere un obiettivo, è la scelta vincente.
L’aggressività è tipica di chi non conosce mezzi per persuadere; essere aggressivi richiede uno sforzo minore che utilizzare la parola come strumento per convincere.
Mussolini era un grande oratore, i suoi proverbiali discorsi tenuti alle folle erano discorsi fiume, gli Italiani gli riconoscevano la forza della parola, della giustezza delle sue idee ancor prima della capacità di incarnare la forza. La sua forza risiedeva nella parola che si faceva gesto, scena. Era una parola che si incarnava per diventare idee e quindi azione. Avrebbe riscosso lo stesso successo se avesse usato una strategia mirata a sabotare e sobillare appellandosi all’istinto primordiale di distruzione?
Celebre la scena in cui Nanni Moretti rivendica l’importanza delle parole. Barbero è uno storico stimato e brillante non può non conoscere il peso di quanto afferma.
Noi siamo le parole che pronunciamo che non sono solo quelle che saltano fuori dai libri letti, e i testi scolastici studiati; le parole ci invadono in ogni momento della giornata, ogni esperienza vissuta ci consegna un vocabolario, attrezzo che ci accompagnerà a vita. Siamo le parole della musica che ascoltiamo, degli amici che incontriamo in piazza sia essa fisica che virtuale, quelle dello sport che frequentiamo, quelle giunteci in eredità dai nostri genitori. Siamo una valigia colma di parole che inconsciamente, senza accorgercene, assorbiamo dal mondo. Siamo assorbenti come spugne, spore che agamicamente danno vita a un nuovo individuo.
La polemica riguardante l’infelice concetto espresso da Barbero sembrerebbe sterile, ma non lo è perché tutto ciò che accade ci riguarda sebbene non siamo personaggi famosi, politici o influencer. Tenersi lontani, non sentirsi partecipi, fare spallucce in attesa che la soluzione ci venga offerta dall’esterno, demandare alle istituzioni, alla scuola, significa non sentirsi parte di un tutto, significa abdicare responsabilità senza pronunciarci.
Siamo parola, anzi siamo il numero delle parole conosciute, il nostro mondo ha il confine delle parole che sappiamo. Non possiamo esprimere i sentimenti che non conosciamo. La forza bruta deriva dall’incapacità di nominare la rabbia, di esprimere il disagio, di dire ciò che ci fa male.
La lingua è un reticolo geografico, perché sia accessibile a tutti bisogna che si parta da punti di riferimento univoci, non escludere nessuno significa trovare punti che intersecano l’asse intorno a cui ruota l’interesse di chi è svantaggiato, di chi conosce un numero di parole ridotto. Afferire al suo mondo significa penetrare e scardinare il muro di silenzio derivante dall’incapacità di nominare e quindi identificare.
La capacità di parola scaturisce da un grande sforzo evolutivo, l’uomo ha sempre avuto bisogno di raccontare se stesso al di là della sua immediatezza. Storie, miti, sono serviti a elevarlo, a proiettarlo in una realtà trascendente; le gesta di eroi ne hanno acceso la fantasia, per mimesi, ha cercato di riprodurne azioni, atti, perché potesse rivivere in lui la fiammella divina. La creazione di mondi altri è corrisposta alla produzione di un nuovo linguaggio che potesse narrare quelle storie. Gli eroi avevano nomi spesso accompagnati da patronimici, Achille era il “Pelide Achille”, cioè figlio di Peleo. L’indistinto, il vago, il non definito è quanto il pettegolezzo riproduce.
Le parole non sono solo parole e neppure parole sole, le parole sono catene che non imbrigliano, sono funzionali le une alle altre, sono per usare un anglismo “The great chain of being”, “la catena degli esseri” o della vita, modello classico dell’ordine del mondo che affonda le sue radici nella filosofia di Platone. La lingua è un organismo vivente e fortemente stratificato non solo perché si è evoluta nel tempo con le diverse dominazioni che hanno arricchito il nostro lessico di vocaboli e prestiti linguistici, ma perché corrisponde al grado di evoluzione del parlante. Più questi appartiene a un ceto culturale elevato, più sarà ricco di esperienze culturali significative, tanto più il bagaglio linguistico ne risulterà impermeato. Più il parlante apparterrà ad un ceto sociale svantaggiato, invece, tanto più il suo linguaggio sarà povero, vago, poco delineato, informe, legato al suo vissuto che fissa, determina e tarpa la capacità di astrazione e immaginazione.
Le parole nascono dalla riflessione, dalla ponderazione, sempre più spesso il linguaggio della comunicazione, invece, tende a sobillare istigare, a pungolare gli istinti primordiali e le reazioni di pancia. Nel mondo della velocità con cui si reperiscono e si dissolvono le informazioni, si è persa la buona abitudine di scegliere le parole. Daniel Kanheman opera una distinzione tra quello che definisce un Sistema istintivo e quello ponderato. Elementi sovrabbondanti nel dare informazioni, spesso tendono ad orientare l’opinione pubblica, a dileggiare il soggetto di cui si parla mettendo in atto una serie di bias, una forma di distorsione della valutazione causata dal pregiudizio.
Emblematico è il caso di un titolo che più che una notizia, conteneva un radicato pregiudizio sull’uso del femminile usato nelle professioni. Laura Boldrini, nel suo ruolo di presidente della camera afferma che è sessismo non declinare al femminile e che come “e è corretto dire la maestra e il maestro, l’operaia e l’operaio, sono corretti, sotto il profilo grammaticale e sociologico, anche l’architetta, l’avvocata o l’avvocatessa”.
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