Partiti e politici
Il destino dei delfini e le debolezze dei partiti italiani
Nella politica italiana il destino dei delfini è spesso simile a quello dei delfini propriamente detti: finire spiaggiati, o in qualche rete da pesca. O meglio: è triste il fato dei delfini della Seconda Repubblica. Nella Prima Repubblica i delfini non mancavano, e le loro sorti erano più benigne: si pensi ad Occhetto, delfino di Natta e poi suo successore alla guida del PCI, o a Fini, delfino di Almirante e suo successore alla guida del MSI, o a Casini delfino prima di Bisaglia e poi di Forlani.
Dopo Tangentopoli è suonata una musica ben diversa. Dal 1994 a oggi, nel (centro)destra a trazione berlusconiana, i destini (politici) di Frattini, Fini, Alfano, Fitto, Tajani – solo per citare i nomi più celebri – dimostrano che Silvio Berlusconi non vuole alcun vero delfino, intendendo con delfino “chi è designato o destinato a succedere in qualche altissima carica o dignità non ereditaria, o chi, per essere il discepolo prediletto di un uomo politico, si presume debba succedergli” (Treccani).
Nel 2016 un sapido articolo del Mattino di Napoli ricordava la collezione di “delfini decaduti” di Berlusconi, citando anche ex presidenti di regione, manager, imprenditori, avvocati. Chi non intende finire spiaggiato deve vantare eccellenti abilità natatorie, o essere pronto a entrare in rotta di collisione con il Leviatano di Arcore: è il caso di Casini, o di Toti, presidente della regione Liguria, che oggi nuota in tandem con il sindaco di Venezia (e in passato possibile delfino di Berlusconi) Brugnaro.
Ma anche nella Lega il destino dei delfini non è troppo felice. Maroni, storico delfino di Bossi, è stato sì segretario della Lega Nord, ma per poco più di un annetto, preferendo concentrarsi sulla guida della regione Lombardia, e abbandonando un campo molto instabile. E del resto la Lega aveva iniziato a cambiare pelle con il declino fisico di Bossi (dal 2004 in poi).
A guidare la metamorfosi della Lega è stato il non-delfino Salvini, che ha trasformato il partito secessionista in una potenza politica nazionalista; ha preso le redini del partito nel dicembre 2013 e ancora oggi comanda. E non sembra che il suo delfino Giorgetti abbia vita troppo facile nel partito, a dispetto della sua nota capacità di gestire dossier complessi (e infatti guida il MiSE, uno dei dicasteri più impegnativi e strategici in un paese che vive di manifatturiero).
Il punto è che il (centro)destra italiano è malato di leaderismo. Di iper-leaderismo. Forza Italia non è mai stato un partito vero e proprio, e la sua ideologia è un insieme di slogan e vaghi riferimenti alle tradizioni liberale, democristiana ecc. Il suo collante era, ed è, Berlusconi, che alla verde età di ottantacinque anni continua a dare le carte. Ma anche la Lega è sempre stata iper-leaderistica. Bossi era il Capo indiscusso, e oggi Salvini è il Capitano, che ascolta tutti e poi decide (lo ha detto lui di recente). Qualcuno ha definito la Lega un partito leninista, ma in realtà è semplicemente un partito di destra, con una cultura incentrata su “poche idee senza parole”, per citare Furio Jesi (Ordine, Territorio, Sicurezza, Flat Tax, Invasione, Buonsenso, Gente, Popolo, Immigrati).
Le “poche idee senza parole” (o con poche parole) sono scelte dall’uomo al comando; alcune idee obsolete, come la fallimentare Padania (o Presidenzialismo per la Forza Italia post-2011), possono essere liquidate senza troppe cerimonie. E non deve stupirci che le idee siano poche: la leadership, come sanno i manager (e i maestri di scuola), è prima di tutto ripetizione, e semplificazione; il leader semplifica la complessità, non è suo compito descriverla. E difatti una ricerca dell’Università di Losanna sembra confermare che i leader troppo intelligenti (ad esempio perché inclini a un linguaggio particolarmente complesso) non sono percepiti come leader efficaci. L’aver “poche idee senza parole” consente alla Lega di amministrare con una certa disinvoltura un eterogeneo ma vasto coacervo di comuni e regioni, e a Forza Italia di essere competitiva in alcune aree del nord come del sud (mentre la sinistra, che ha “tante idee con tantissime parole”, in certi territori non riesce proprio ad attecchire).
In un (centro)destra iper-leaderistico, il leader è poco incline a passare la mano, sia perché consapevole di essere il collante di tutto (è immaginabile una Forza Italia senza Berlusconi? Una Lega senza Salvini?), sia perché sa che una volta passata la mano il suo ruolo sarà molto ridimensionato (e infatti Bossi, uscito di scena come segretario, venne nominato presidente a vita della Lega Nord, un ruolo puramente onorifico). E del resto né Forza Italia né la Lega sono forze comparabili al pur fragile PD, alla CDU e alla SPD tedesche, ai socialdemocratici svedesi, al PSOE e al PP spagnoli ecc. Non sono – è il caso di ripeterlo – partiti normali. Non a caso se la Lega degli anni ’90 si identificava con il tonitruante Bossi e la sua demagogia, quella odierna si chiama Lega per Salvini Premier.
Ma perché i partiti di (centro)destra sono iper-leaderistici, e non hanno veri delfini? Il quesito non vale solo per la Lega o Forza Italia, ma anche per la BZÖ austriaca, che dopo la morte di Haider ha conosciuto un inarrestabile declino, o per lo UKIP in crisi dopo l’uscita di Nigel Farage. In estrema sintesi, l’iper-leaderismo è la forza ma anche la debolezza dei partiti populisti di destra. Da un lato, in una società sempre più insicura, ansiosa e dominata dal corto circuito media-social media, l’iper-leaderismo trova terreno fertile: è mediatico, spettacolare, e soddisfa la domanda di guida da parte di un elettorato fragile che antropologicamente avverte il bisogno di un uomo forte in grado di offrire protezione. La tuta blu di cinquant’anni teme l’immigrato che gli ruba il lavoro e il pusher che spaccia droga al figlio teen-ager, la piccola partita IVA teme che la sinistra ossessionata dalla lotta all’evasione abolisca il regime dei minimi, il tassista teme ulteriori “lenzuolate” liberalizzanti ecc.
Allo stesso tempo l’iper-leaderismo si traduce in una struttura partitica duttile, per non dire liquida (agli iper-leader non piacciono burocrazie di partito capaci di insidiare il loro potere), e in un’ideologia gassosa, fatta appunto di “poche idee senza parole”. Un’ideologia che piace, perché lascia larghi spazi di manovra all’iper-leader, e perché gli elettori di (centro)destra non amano i discorsi lunghi; essa tuttavia alla fine si rivela drammaticamente impreparata alla prova dei fatti.
Viceversa i partiti di centro(destra) come la CDU, l’ÖVP austriaco, il Kokoomus in Finlandia, il liberalconservatore VVD nei Paesi Bassi, i Moderata in Svezia ecc. non sono incentrati su un leader, hanno un’organizzazione complessa, regole precise e non facilmente plasmabili, un’ideologia (seppur sempre più evanescente, negli ultimi anni). Se diciamo CDU pensiamo alla Merkel, ma anche a Kohl, ad Adenauer, a Schäuble: leader diversi tra loro, che hanno lasciato un’impronta nel partito cristianodemocratico senza però stravolgerlo.
Nei partiti di centro(destra) ci sono capi e delfini, non Leviatani, e i delfini non rischiano di finire spiaggiati troppo facilmente. Per esempio la delfina della Merkel, Annegret Kramp-Karrenbauer alias AKK, è stata presidente della CDU, non ha brillato granché, e tuttavia ha conservato il suo posto nel governo Merkel. Il delfino, del resto, inizialmente indicava l’erede al trono del re di Francia; ciò era possibile perché il regno di Francia non era un’autocrazia, e il re di Francia non poteva fare qualsiasi cosa: ad esempio non gli era possibile nominare delfino chi voleva, la sua successione doveva rispettare delle regole (persino il potentissimo Luigi XIV non era un tiranno, privilegi e consuetudini ponevano dei limiti alla sua azione di sovrano assoluto).
I partiti di centro(destra) europei conservano riti e liturgie, pratiche e regole che in Italia lo tsunami di Tangentopoli, un sistema mediatico abnorme e l’antipolitica (alimentata da una gravissima crisi sociale) hanno spazzato via. Difatti l’unico fossile della Prima Repubblica ancora in buona salute è la SVP; e chi conosce l’Alto Adige sa che lì, in quella ridotta alpina al confine tra i due mondi, protetta dalla sua natura anfibia, godono di una certa vitalità anche i Verdi, l’ultima creatura del progressismo novecentesco europeo.
Il minor tasso di leaderismo rende i partiti di centro(destra) europeo meno mediatici e piglia-voti dei loro omologhi italiani di (centro)destra, ma anche più resistenti al declino dei loro leader: il giovane cancelliere austriaco Sebastian Kurz si è dimesso pochi giorni fa dal suo incarico, per esempio, ma nulla fa presagire un crollo dell’ÖVP. I partiti popolari e liberal-conservatori europei sono macchine un po’ scassate, ma che ancora funzionano.
Ovviamente l’iper-leaderismo è assente nei partiti di sinistra, che sono tendenzialmente ben poco leaderistici. Giova ricordare che molti dei più amati leader di centrosinistra della recente storia europea, come Olof Palme in Svezia, Willy Brandt in Germania, Romano Prodi in Italia, José Luis Zapatero in Spagna erano, per certi aspetti, anti-leader, o almeno chiari esempi di soft leadership.
Nel centro(sinistra) il PD è – da un punto di vista organizzativo – un’involuzione del PCI, ma se continua a reggere nonostante l’ininterrotto avvicendarsi di segretari e scissioni (la Lega, a oggi, di segretari ne ha avuti solo tre, e neanche una scissione; Forza Italia ha perso pezzi, ma il presidente è sempre Berlusconi), è anche grazie al sopravvivere eroico di tronconi della vecchia organizzazione del Partito per eccellenza.
E del resto benché dell’ideologia del PCI i vertici del PD abbiano buttato a mare praticamente tutto, i frequenti riferimenti – nella retorica e nella propaganda dem – a un Enrico Berlinguer decomunistizzato (e destoricizzato) sono la dimostrazione che il “brand PCI” qualche valore ancora ce l’ha, agli occhi non solo di un elettorato post-comunista, ma persino anti-comunista.
E proprio perché il PD ha ancora, nel suo DNA, geni del PCI (e del PPI), l’iper-leaderismo è un innesto di destra che stenta ad attecchire. Il PCI ha smesso di essere un partito fortemente leaderistico con la morte di Togliatti, e nemmeno Togliatti era un dominus incontrastato. E in un partito che fatica a darsi un capo (o meglio: che lo cambia più o meno ogni anno) il delfino non può esistere. Ma impigliato nello Zeitgeist, inseguendo le suggestioni del berlusconismo, il PD cerca ossessivamente un iper-leader; non lo trova (ve lo riuscite a immaginare un Salvini o un Berlusconi di sinistra?) e allora cambia il segretario. Se lo trova (Renzi) lo rigetta come un corpo estraneo, alla fine.
Nel PD chi fa carriera all’ombra di questa o quella personalità di vertice, nuotando in una qualche corrente, poi crea a sua volta, necessariamente, una corrente e diventa una personalità di spicco. E ogni corrente porta con sé parole, idee. Ecco perché il PD è un partito di “tante idee con tantissime parole”. Forse troppe idee, e troppe parole. Ciò alimenta il caos interno, confonde gli elettori, e indebolisce il segretario di turno, perché ci si può sedere sui “ma anche”, però per poco.
Storicamente i partiti di sinistra sono vulnerabili al settarismo e alle divisioni. L’iper-leaderismo (introdotto in Italia da Berlusconi, ma già embrionale nel PSI di Craxi) alza la posta in gioco così tanto da amplificare il settarismo e le divisioni interne al PD diviso in correnti, destabilizzandolo. Tuttavia il PD è ancora troppo di sinistra per accettare in toto l’iper-leaderismo; un PD iper-leaderizzato sarebbe ancora più sbilanciato a destra (non a caso l’unico iper-leader della storia del PD è Renzi, che sognava per il partito un futuro centrista).
C’è poi il M5S. Qui la situazione è particolare, perché il M5S non ha mai avuto un leader, nel senso di un segretario come Salvini nella Lega o Letta nel PD. Il M5S però ha sempre avuto un metaleader indiscusso, il garante Beppe Grillo, non a caso i pentastellati vengono chiamati grillini. E per ogni metaleader, c’è un metadelfino: una volta è Crimi, un’altra Fico, quindi Di Battista, poi Di Maio, oggi è Conte. E così come il metaleader può essere sconfitto ma non defenestrato, così anche un metadelfino (il capo politico) può essere messo da parte, ma mai del tutto. La parola di Crimi, a riguardo, è eloquente. E questo è doppiamente vero quando – ed è il caso di Conte – il metadelfino può contare su un seguito importante nella popolazione, e vantare un’esperienza da presidente del consiglio.
Ovviamente c’è chi non può avere un delfino neanche volendo. È il caso di Mario Draghi. Il presidente del consiglio può avere collaboratori, assistenti, fedelissimi, ma non delfini, dato che egli non è espressione di un partito, ma della tecnocrazia in purezza. Quando Draghi non sarà più presidente del consiglio, probabilmente nel 2023, la vita politica tornerà lentamente alla normalità. Nel frattempo i partiti hanno l’opportunità, inestimabile, di rimettere ordine in casa propria, e tornare a essere partiti. Come i personaggi del romanzo Il meraviglioso mago di Oz, ogni leader di partito difetta di qualcosa di cui disperatamente necessita.
Berlusconi ha bisogno di un erede, e in fretta; un erede (o meglio: un’erede, dato che l’uomo di Arcore per psicologia è portato ad affidare i ruoli più delicati alle donne) in grado di dare a Forza Italia una fisionomia e un’ideologia meno confuse, e quindi di deberlusconizzarla almeno un po’. Salvini ha bisogno di normalità, per trasformare la Lega in un partito europeo. Ciò non significa entrare nel PPE, come chiedeva Giorgetti, ma almeno normalizzare (sia a livello organizzativo che ideologico) un partito che è nato come forza secessionista e anti-sistema, e che sino ieri tuonava contro l’euro.
La domanda è: si può essere un rispettabile partito di destra senza essere di centro(destra), senza essere iper-leaderistici, e senza chiedere l’Italexit? Il segretario della Lega può avere un rapporto sereno con il suo delfino come la Merkel con AKK? Può la Lega avere riti e liturgie che non siano quelli, a dir poco offensivi e vagamente blasfemi, del secessionista Bossi con l’ampolla e l’acqua del Po?
L’era dei partiti di plastica – nel senso di partiti facilmente modellabili dai loro iper-leader – è finita. Ma è finita anche l’era dei partiti che vogliono essere tutto e il contrario di tutto, come il PD del “ma anche”, quello che pone nel suo pantheon Berlinguer e Martin Luther King, Gandhi e Kennedy, che è nel PSE ma in Italia assume profili ben poco socialisti. I democratici devono dotarsi di meno idee e meno parole, ma più chiare. Facendolo riusciranno a trovare non un iper-leader, ma un (anti)leader, un Prodi del XXI secolo che oggi non si vede, ma che prima o poi arriverà.
Il PD al mago di Oz dovrebbe chiedere il dono della sintesi. E sintesi significa togliere ciò che non è essenziale, e dare maggior enfasi a ciò che lo è. Uguaglianza, per esempio, sarà un’idea centrale del PD o no? Oggi lo è e non lo è, come il gatto di Schrödinger. Se la risposta (legittima) alla prima domanda sarà no, il PD veleggerà verso i lidi della liberaldemocrazia, verso l’ALDE, come sognano da anni alcuni suoi esponenti e quasi-esponenti, quali Renzi e Calenda, e perderà nuovi pezzi a sinistra. Se la risposta è sì, allora perderà qualche altro pezzo a destra e potrà sognare un ricongiungimento con Bersani & co. Quanto al M5S… si può solo augurare a Conte buon lavoro. Trasformare un meta-partito in un partito richiede l’intervento della Fata turchina, e come sanno i lettori di Collodi prima che la Fata turchina intervenga a Pinocchio ne succedono di tutti i colori, incluso essere inghiottito da una balena.
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