Partiti e politici
Cosa è la Democrazia Digitale e perché è al centro della strategia di Casaleggio
Martedì 9 aprile a Bruxelles all’interno di una conferenza organizzata dal Movimento 5 Stelle, Davide Casaleggio porta come punto centrale del programma europeo pentastellato il tema della democrazia digitale. Afferma che “internet è ormai una tecnologia matura” ed è necessario pensare a nuovi modi di gestire i diritti del cittadino che diventa in larga parte cittadino digitale. Fa l’esempio del diritto all’oblio oggi “nelle mani di Google o Facebook” che fungono da tribunali, “sono loro” dice Casaleggio, “che decidono se un’informazione va eliminata dalla rete oppure no. Nel 2016 solo Google ha ricevuto 500 milioni di richieste di rimozione di contenuti, un miliardo sono state le richieste nel 2017″. Forse se il giudizio su un tema squisitamente giuridico è in mano a soggetti privati qualcosa non va.
Secondo il deus ex machina del Movimento 5 Stelle la soluzione è costruire la cittadinanza digitale attraverso cui ogni individuo può esercitare i propri diritti in una realtà in cui non c’è più differenza tra mondo digitale e fisico. Per cominciare Casaleggio suggerisce di concentrarsi su tre pilastri: la conoscenza, ossia permettere alle persone di interagire con il web in modo consapevole; l’accesso gratuito a internet negli spazi pubblici; la costruzione di identità digitali che permettano ad ognuno di dimostrare la propria identità in qualsiasi momento durante la navigazione.
Alla base di tutto, c’è l’idea di destino su cui si fonda il Movimento 5 stelle: l’inveramento della democrazia digitale, diretta e partecipata attraverso cui sono i cittadini ad essere artefici del proprio futuro.
Infatti, viene spiegato durante l’evento, il termine democrazia digitale farà parte del nome della nuova formazione politica europea a cui il M5S sta lavorando insieme ad altri per contrastare il fronte sovranista (alleato di Governo in Italia).
Ma che cos’è la democrazia digitale? Diciamo, per essere chiari, che non è stata inventata da Casaleggio e che le idee di cui si fa portatore e che spesso causano scalpore e indignazione nel giovane ma vecchio elettorato di sinistra e nel conservatorismo di destra sono studiate nelle Università di tutto il mondo (solitamente quelle che guardano al futuro). Meno nelle facoltà umanistiche del vecchio continente ferme all’800 e più nei centri d’eccellenza americani e inglesi, oltre che chiaramente dai futurologi della Silicon Valley.
A tal proposito, è recentemente uscito un bel libro sul futuro della politica scritto da Jamie Susskind, un giovane avvocato con un passato da ricercatore al Berkman Klein Center for Internet and Society dell’Università di Harvard dal titolo “Future Politics: Living Together in a World Transformed by Tech”. Susskind non ha nessun dubbio nel sostenere che il futuro della politica sta nella regolazione del suo rapporto con la tecnologia. Si potrebbe dire che il cuore della democrazia digitale potrebbe essere identificato proprio in questo, ossia nella modalità di connessione e regolazione di questi due poli.
Tuttavia, definire il concetto di democrazia digitale non è facile per via del fatto che la democrazia è un insieme di pratiche, strutture, istituzioni e movimenti. Per semplificare possiamo dire che per democrazia digitale si intende la pratica della democrazia attraverso l’utilizzo di strumenti digitali e tecnologie con l’obiettivo di allargare e intensificare la partecipazione democratica.
Possiamo distinguere sostanzialmente due modelli di democrazia digitale: diretta e partecipata. Nel libro Susskind approfondisce anche i concetti di data democracy e AI democracy ma dal mio punto di vista si tratta di sovrappiù tecnologici che andrebbero ad innestarsi su processi che fanno riferimento ai modelli di democrazia diretta e partecipata a meno di sostenere un processo decisionale automato, dove la tecnica decide per noi.
Iniziamo dal primo modello. La democrazia diretta pura prevede che i cittadini partecipino al processo di decision-making legislativo al posto dei rappresentati politici eletti per farlo.
Un tempo, quando i maggiori teorici della democrazia moderna come Jean Jacques Rousseau, Thomas Hobbes, John Locke e Montesquieu riflettevano sui concetti di volontà generale, di libertà, di patto sociale e di bilanciamento dei poteri dello Stato democratico, non era immaginabile che a decidere la miglior legge possibile sarebbe stata tutta la popolazione riunita in assemblea. L’ipotesi era stata considerata ma subito accantonata come folle, in quanto avrebbe scatenato caos e inefficenza.
Tuttavia, nella digital-lifeworld come la chiama Jaime Susskind (dove esisterebbe un sistema-piattaforma digitale integrato), non servirebbe riunirsi fisicamente in assemblea per votare in tempo reale. Non è difficile immaginarsi che giornalmente ci arrivi una notifica sullo smartphone avvisandoci sulle questioni su cui è necessario votare ed entro quando. Le notifiche sarebbero accompagnate da un’introduzione generata attraverso l’intelligenza artificiale in grado di sintetizzare il senso del provvedimento e le argomentazioni pro e contro. Per esempio, il sistema ci potrebbe chiedere di votare sulla necessità o meno della Tav oppure se un nuovo programma scolastico debba essere introdotto o meno.
Applicazioni che permettono di votare su singole issue esistono già e un esempio è Agoravoting ad oggi maggiormente utilizzata in strutture private. Tuttavia, perché la pratica dell’e-voting venga generalizzata e magari estesa alla prassi politica è necessaria maggior fiducia degli utenti verso strumenti che necessitano di continui miglioramenti, soprattutto dal punto di vista della sicurezza.
Comunque sia, in futuro i problemi non saranno certo di natura tecnica. Il vero tema è se riteniamo la democrazia diretta una pratica desiderabile. L’argomento più famoso a sfavore della democrazia diretta pura pone la seguente domanda: Non è rischioso che ognuno di noi sia abilitato a decidere in merito a politiche pubbliche complesse e su cui non ha le adeguate competenze?
In realtà, il problema sussiste laddove si richiede un’applicazione della teoria pura della democrazia diretta. Alternativamente, esistono modelli di democrazia diretta parziale in cui per esempio i cittadini possono votare sulle questioni su cui veramente desiderano partecipare. Magari in base alla geografia (voglio votare su una questione che riguarda Milano, la città in cui vivo), alla competenza (voglio votare su un tema che riguarda l’industria energetica su cui studio da trent’anni) o all’interesse (voglio votare su una questione che impatta l’agricoltura, settore in cui ho un’azienda).
Questo è solo un esempio di possibile governance di un sistema di decision-making diretto, possiamo immaginarne altri, per esempio di delegare il nostro voto non solo ai politici ma a chiunque riteniamo in grado di prendere una decisione su un dato argomento. Invece di astenerci su questioni su cui non abbiamo competenze, potremmo decidere di delegare il nostro voto a persone di cui ci fidiamo. Su un provvedimento legato alla sicurezza nazionale posso pensare di delegare un ufficiale che ha servito l’esercito per anni o uno studioso di scienza militare. Lo stesso può accadere per una misura che riguarda la pianificazione urbana dove posso delegare il voto per esempio ad un archistar.
Anche in questo caso, una piattaforma digitale che ricalca questo modello esiste già e si chiama DemocracyOS.
Tra l’altro quando si parla di democrazia diretta si pensa sempre a qualche cosa di distante nel tempo mentre invece non è così. Tanto è vero che il Ministro dell’Interno Matteo Salvini non è stato processato per il caso Diciotti per via dell’esistenza di Rousseau, la piattaforma di democrazia diretta e partecipata del Movimento 5 Stelle recentemente multata dal Garante della privacy per problemi tecnici che consentirebbero potenzialmente la manipolazione dei voti.
Infatti, il problema della democrazia diretta ammesso sia auspicabile, riguarda lo stabilire una serie di regole condivise sull’utilizzo delle piattaforme pubbliche o partitiche, sulla loro governance, sulla sicurezza del voto e sul trattamento dei dati degli utenti che non può ricalcare il modello estrattivo di Google, Amazon e Facebook perché pericoloso e contrario ai principi democratici.
Il secondo modello di democrazia digitale non si focalizza sull’eliminazione o riduzione del ruolo della rappresentanza ma piuttosto sul contributo della popolazione allo sviluppo delle politiche pubbliche e prende il nome di democrazia partecipata o wikidemocracy.
Anche qui, potremmo immaginate che il popolo italiano invece di aver delegato i padri costituenti per la stesura della Costituzione italiana avesse provato a riunirsi in assemblea e scrivere la Costituzione attraverso il contributo delle idee di tutti. Anche qui, evidentemente il caos e tempi biblici.
Tuttavia, l’invenzione del software wiki ha permesso a persone lontane fra loro di lavorare insieme creando contenuti e dandosi una serie di regole per governare la propria collettività. Pensate al progetto di Wikipedia, chiunque può decidere liberamente di dare il proprio contributo al sapere enciclopedico. Un altro esempio sono i software open source come Linux, il cui codice è curato da circa 12,000 contributor, i quali lavorano con il presupposto che ogni problema può essere risolto solo se abbastanza persone ci lavorano.
I modelli di produzione e raccolta di contenuti dal basso si dividono sostanzialmente in due: laddove c’è una collaborazione senza un controllo dall’alto si può parlare di common based-peer production o di open source production. Laddove invece si riscontra un maggior controllo top-down si parla di crowdsourcing.
Attraverso questi modelli la politica può richiedere alla cittadinanza di contribuire ai disegni di legge, decidere le priorità dell’agenda politica e sviluppare nuove proposte di policy.
Ci sono diversi esempi di wikydemocracy nazionale e locale in giro per il mondo: nella Repubblica Cinese, la piattaforma sperimentale di consultazione vTaiwan consente ad un ampio pubblico di partecipare a un processo continuo di identificazione dei problemi. Finora, alcune questioni nazionali, tra cui la regolamentazione della telemedicina, l’istruzione online, il telelavoro e l’utilizzo di Uber sono state discusse con oltre 200.000 persone partecipanti.
In Islanda, Better Reykjavik è una piattaforma web di crowdlaw per la generazione di idee e per il crowdsourcing delle politiche pubbliche che consente ai cittadini di presentare e discutere idee relative ai servizi e alle proposte per la città di Reykjavik. Il sito web è stato utilizzato dal 20% della popolazione islandese e oltre la metà dei registrati lo utilizza regolarmente.
Esistono piattaforme di wikidemocracy in Brasile, Madrid, Torino, Francia, Parigi, Estonia, Finlandia, UK. Per una conoscenza più approfondita dei fattori critici e di successo delle piattaforme in utilizzo nei diversi Paesi del mondo rimando alla ricerca Digital Democracy: The tools transforming political engagement della Fondazione Nesta UK.
Tuttavia, la teoria della Wikidemocracy, così come quella della Democrazia diretta, presenta diverse difficoltà di applicazione di cui riporto un elenco non esaustivo di seguito:
• Richiede ai partecipanti una grande quantità di tempo per poter lavorare in piattaforma;
• Non tutti i cittadini si sentono a proprio agio nell’editare un disegno di legge;
• Guardando ad un futuro che in realtà è già presente, nel caso in cui la legge sia progressivamente implementata attraverso il software, di cui sono un esempio pratico gli smart contract (legge dello Stato contenuta nel Decreto Semplificazione del Governo Conte), le persone che hanno dimestichezza con la scrittura del codice informatico sono solo una minima parte della cittadinanza.
• In ultimo, ed è questa l’argomentazione più convincente dal punto di vista politico, nel caso in cui una persona non condivida il principio alla base di una proposta di policy non si comprende in che modo possa esprimere il proprio contributo. Per esempio: come posso contribuire ad una proposta sulla legalizzazione della droga se non ne condivido il principio alla base?
Le difficoltà nell’applicazione della Wikydemocracy sono certamente rilevanti. Tuttavia, secondo Susskind, trattandosi di uno sviluppo inevitabile, dovremmo iniziare ad immaginare un modello di wikydemocracy che abbia alla base una Costituzione chiara, basata su regole chiare relativamente a quali leggi possono essere editabili, come e quando, in quale misura e sotto quali etichette possono essere inserite le modifiche.
Per concludere, vista la crisi che sta attraversando il sistema democratico in termini di fiducia nelle istituzioni e di partecipazione alla vita democratica e vista la prospettiva di un futuro a sempre più alta intensità tecnologica, penso si possa dire che ci troviamo in uno spazio bianco della storia che può essere paragonato a quello vissuto dai padri della democrazia moderna e rappresentativa. In questo spazio bianco, termine usato dal filosofo Carlo Sini per identificare un momento storico in cui l’egemonia di un sistema concettuale frana perché uno nuovo sta prendendo il suo posto, occorre scrivere nuove regole in grado di normare la democrazia digitale e più in generale il rapporto tra politica e tecnologia.
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