Calcio

Calcio: il gioco profondo

12 Marzo 2017

“Tutto quello che so della vita, l’ho imparato dal calcio”

Albert Camus

 

Perdere la partita di venerdì ha amareggiato tutti i milanisti (appartengo a loro) e le polemiche si sono rincorse sugli episodi. L’arrabbiatura è stata collettiva e manichea.

L’analisi è, però, rimasta sempre a un livello superficiale; non si è andati in profondità per provare a comprendere cosa sia successo all’animo dei tifosi. Alla passione, al loro vivere insieme l’emozione di una partita.

Cosa rappresenta una disputa calcistica? Come si vive? Come impatta sulla  nostra vita? A queste domande sono pochi i raccontatori di calcio italiani che hanno provato a dare risposte.

Il calcio, nel nostro paese, nonostante la sua diffusione popolare, non ha mai trovato l’attenzione della letteratura o della cinematografia pop, soprattutto se ci confrontiamo con gli autori sudamericani e Nick Hornby per la scrittura, o a film come Ogni maledetta domenica. Lo sport, dagli stranieri, viene raccontato in tutte le forme possibili.

Da noi tutto si riduce a fiumi di parole che non portano mai a nulla, se non a esacerbare il cuore di chi tifa. La chiacchiera pruriginosa da trasmissione del pomeriggio.  Web, Radio e tv continuano a battere sullo stesso punto con la stessa chiave narrativa dei disastri naturali o degli omicidi efferati. Non si avverte la necessità di approfondire, bisogna subito trovare un colpevole.

A capire più di altri come viviamo il calcio è stato Churchill che ci ha brillantemente descritto: “Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre” e venerdì sera abbiamo avuto proprio questa sensazione. Uscire sconfitti non piace a nessuno: bisogna saper perdere ma anche saper vincere. E questo in Italia non è mai scontato. I milanisti sembrava che avessero subito la scomparsa di un parente di primo grado (comunque brucia) e gli juventini è come se avessero vinto la coppa del mondo e non invece battuto una squadra che era parecchi punti dietro di  loro in classifica.

Il calcio ci rappresenta, ci descrive. Se ne parla tantissimo ma, a volte, si ha la sensazione che lo si conosca poco; quali siano le sue dinamiche e come esse impattino sulla vita del Paese. Non saperlo raccontare, in definitiva, equivale a non saperci raccontare come popolo.

Il gioco più popolare non è una metafora della vita ma la vita stessa come ci spiega perfettamente  il grande Geertz parlandoci del combattimento dei galli a Bali,

“Quello che dice il combattimento di galli lo dice un vocabolario di sentimenti – il brivido del rischio, la disperazione della perdita, il piacere del trionfo. Tuttavia non dice solo che il rischio è eccitante, la perdita deprimente o il trionfo gratificante, banali tautologie sentimentali, ma che è con queste emozioni, così esemplificate, che la società si è costruita e gli individui sono messi insieme. Assistere a combattimenti di galli e parteciparvi è, per un Balinese, una specie di educazione sentimentale.” Clifford Geertz , Il gioco profondo: il combattimento dei galli a Bali.

Basta sostituire la parola combattimento di galli con Calcio e il gioco è fatto.

Portare il proprio figlio a San Siro la prima volta, insomma, non è come portarlo alla convention del Lingotto o una riunione di partito. Mentre al Lingotto invece parlano di Maradona, il più grande, sperando di agganciare quelle emozioni.

Utilizzare il calcio come metafora per spiegare qualcosa d’altro è una scorciatoia, una furbata retorica e, in questa trappola, ci sono cascati in tanti.

La cosa più grave è che non se ne sono resi conto.

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