Clima

Artico in fiamme? Il ghiaccio brucia?

6 Agosto 2019

Una delle cose che oggi mi molestano di più è l’imprecisione. Siamo assediati dall’imprecisione, ovunque. Il pressappochismo che impera poi sui temi climatici e gli allarmismi che genera m’irritano ancor più che le minchiate che vengono generate a getto continuo sui media di ogni nazione, perché tutti ci mettono del proprio. Ovviamente la mia è un’informazione parziale perché non ho la più pallida idea di cosa scrivano i cinesi, i russi, i giapponesi, gli indiani, gli arabofoni e altri popoli di cui non conosco l’idioma, per cui mi risulta assai difficile avere un’idea più precisa e completa.

Le lingue europee, almeno le principali, quelle più parlate, invece le conosco e quindi riesco più o meno a barcamenarmi nelle pubblicazioni che invadono giornalmente l’etere, la rete e la carta stampata.

Ovviamente l’allarmismo viene generato e propagato con successo grazie all’ignoranza della maggior parte della gente sui temi della geografia e dell’ecologia, ignoranza che riguarda anche coloro che ne scrivono. E, prime tra tutti gli ignoranti, le classi politiche, da Trump ai nostri ministri (innominabili per evitare pubblicità ma avete capito chi sono) ai principi di Monaco che si portano a spasso Greta per gli oceani e ai reali d’Inghilterra che sussurrano nell’orecchio a Trump che forse il riscaldamento globale è opera dell’uomo.

Quando per esempio si leggono i titoloni tipo “L’Artide in fiamme: bruciano le foreste dell’Artide” mi vien che ridere, come diceva la caricatura dello snob di Lando Buzzanca in Signore e Signora, nel lontano 1970. Semplicemente perché nell’Artide, ossia nell’area delimitata dal Circolo Polare Artico, non esistono e non possono esistere foreste, cioè aree in cui crescano alberi d’alto fusto. Perché, direte voi? Per varie ragioni, la principale delle quali è la mancanza totale di luce – che, non dimentichiamolo, sarebbe indispensabile alla fotosintesi clorofilliana – nei mesi invernali, che avviene grazie a un fenomeno che si studia fin dalla scuola elementare: l’avvicendarsi delle stagioni a causa dell’inclinazione dell’asse terrestre. Il Circolo Polare Artico è la linea immaginaria che delimita l’area di notte assoluta nei sei mesi invernali. Ovviamente senza luce solare c’è un freddo intenso che ghiaccia il terreno, dove le radici degli alberi non potrebbero sprofondare e quindi una crescita eventuale di piante alte è assolutamente impossibile. Oltre naturalmente all’incompatibilità del metabolismo di simili organismi con quel freddo.

Cosa esiste quindi nell’Artide, almeno nella piccola parte delle terre emerse che rientrano nell’area circoscritta dal circolo polare e che si liberano dai ghiacci durante la stagione estiva, cosa esiste che possa colonizzare quelle fessure, tra le estese rocce nude, che possano ospitare una qualche forma di vita vegetale? La tundra. Nella tundra vivono muschi e licheni, pochissimi arbusti, in grado di sopportare temperature invernali anche fino a -40° C e oltre e la mancanza di luce, sepolti dalla neve. Nelle regioni sub-artiche, invece ecco che a poco a poco la tundra lascia il posto alla taiga, ossia le foreste di conifere e di betulle, ma lì già il terreno è più acquitrinoso, con paludi e corsi d’acqua, e il disgelo è maggiore; vi si trovano anche le torbiere, depositi di carbone naturalmente organico di antiche vegetazioni che si perdono nelle ere geologiche. Forse sono queste che possono bruciare, per occasionali siccità, come è talvolta successo anche in passato, con scintille scaturite da fulmini che trovano in un terreno secco e in ammassi di torba un buon combustibile. Se quindi bruciano alcune foreste della regione sub-artica, amen, è successo e succederà ancora, in pochi anni le foreste bruciate si rigenerano. Il fumo certo sarà molesto, ma che ci si può fare? Si può forse mettere un tappo al vulcano islandese Laki, uno dei più prolifici di ceneri che inevitabilmente vengono trasportate per ogni dove ogni volta che fa un ruttino? Alla stessa maniera non si possono spegnere incendi così vasti in zone disabitate, innanzitutto perché non c’è come arrivarci, non ci sono strade né infrastrutture.

La tundra artica

Ma l’Artico brucia. Solenne castroneria, da bocciatura in biologia e geografia astronomica, se mai quei giornalisti che ne scrivono hanno mai sfogliato un libro. Inevitabilmente si deve sempre dare la colpa a qualcuno, di codesti incendi, anche se sono fenomeni naturali, e quale migliore colpa, di questi tempi, se non quella del “riscaldamento globale”? Come se il riscaldamento globale fosse un orco cattivo, sempre in agguato per sterminarci, per arrostirci tutti, per eliminarci dalla crosta terrestre in quanto parassiti indesiderati e non un fenomeno ricorrente nella Storia climatica del pianeta. Ma, la cosa più colpevolizzante è che il riscaldamento globale, eufemisticamente chiamato “cambiamento climatico” per precauzione – che c’è, e nessuno lo vuole negare perché sarebbe assolutamente stupido, secondo anche codesti luminari che scrivono che l’Artico è in fiamme – , è senza alcun dubbio causato dall’uomo, cioè ha un’unica origine antropogenica.

Per chi volesse saperne di più:

Le mille e un’apocalisse raccontate da Sheherazade

E giù tutti con misurazioni, che ovviamente partono solo dagli ultimi secoli in quanto la strumentazione scientifica per poter misurare si è evoluta solo ultimamente, per dimostrare che “prima”, in un’età imprecisata, non era così. Facendo leva su un senso di colpa di origine religiosa, un peccato originale, l’uomo era il custode dell’Eden e lo ha distrutto, e così via. E giù con profeti, scienziati più o meno credibili, con catastrofi in agguato, eccetera eccetera, ogni giorno siamo bombardati dal ghiacciaio che si scioglie (e che magari si riforma nei glaciali sei mesi d’inverno e di buio che caratterizzano i poli), senza considerare tutti gli altri fattori astronomici che influiscono su codesti cambiamenti climatici. No, la colpa dev’essere dell’uomo e basta. Com’era anche colpa dell’uomo, ricordiamolo, sempre per altri scienziati degli anni ’70 del ’900, che il mondo si sarebbe ghiacciato entro il 2000 e che si sarebbe desertificato con pestilenze e carestie, a cominciare dall’India, sempre entro il 2000. Scienziati distratti? Scienziati incompetenti?

L’uomo certe colpe ce le ha. Senza alcun dubbio. Se le inondazioni sono particolarmente distruttive in alcune aree è perché l’uomo in quelle aree ha costruito centri abitati senza piano regolatore. Ci si stupisce se a Zermatt, nella placida Svizzera, dove si pensa che non possa accadere nulla di terribile, coi pastori che soffiano felici negli Alphorn e dove i prestanti maschi elvetici si sarebbero occupati delle signore mentre i mariti delle suddette si distraevano col calcio dei mondiali, un ghiacciaio si liquefà per correnti d’acqua interne al ghiacciaio soprastante. A nessuno viene in mente che costruire un villaggio ai piedi di un ghiacciaio può essere pericoloso esattamente perché può verificarsi ciò che si è verificato. Come a nessuno viene in mente che costruire sopra dei vulcani attivi ed esplosivi come il Vesuvio, lo Stromboli o i Campi Flegrei, sia una follia pura per poi continuamente far finta di preparare impossibili piani di evacuazione a causa della densissima popolazione unita alla densissima e disordinatissima urbanizzazione. Non parliamo di paesi dove si costruiscono strade su pendenze da sesto grado e poi ci si meraviglia se, in seguito a una pioggia un po’ più abbondante del solito, tutto frana, portandosi dietro ogni cosa.

Nessuno, ma proprio nessuno, si sofferma a spiegare che se le inondazioni o i fenomeni estremi sono diventati più estremi o appaiono tali è proprio a causa di un disordine urbanistico, in questo caso sì per cause umane. È chiaro che se uno costruisce città estesissime che producono un calore inimmaginabile, grazie anche, in aggiunta al calore concentrato dal cemento durante le ore d’insolazione, a condizionatori e aeratori in ogni stanza, si crea una massa d’aria caldissima che provoca delle correnti ascendenti e in condizioni particolari aiuta i tornado a rinforzarsi. Come è chiaro che se tu costruisci strade su strade in luoghi in pendenza senza pensarci più di tanto, corredandole di urbanizzazioni, senza che vi siano boschi sufficienti ad arginare e assorbire le acque meteoriche, tutte quelle belle superfici lisce sono proprio ciò che occorre all’acqua per raccogliersi e meglio fluire verso il basso, indisturbata, a causa della forza di gravità. Gliene importa assai all’acqua se ci sono paesi e città più in basso, come nei ricorrenti casi di Genova e dintorni. Se poi si vuole anche costruire in aree depresse, ossia sotto il livello dei fiumi, non ci si deve stupire se qualche volta l’acqua si prende la briga di risalire la china.

Insomma la colpa può essere certamente dell’uomo per quanto riguarda la “distrazione” o meglio l’incompetenza – o la mala fede – nello sfruttamento del territorio.

La frana sarebbe avvenuta e, soprattutto, sarebbe stata notata se l’uomo non avesse costruito una strada in quel punto?

In passato fenomeni estremi ci sono sempre stati e frane, terremoti, tsunami hanno provocato fine di civiltà ed ecatombi, ma ciò fa parte delle caratteristiche di un pianeta in perenne movimento, coi suoi moti interni ed esterni, con influenze magnetiche astronomiche e cicli dovuti alla posizione della Terra nello spazio siderale, viaggiando di continuo intruppata con tutto il sistema solare e galattico verso l’infinito.

Ci sono stati momenti assai più caldi nella storia del nostro pianeta, anche quando l’uomo non c’era ancora, così come ce ne sono stati di gelidi. Voler cristallizzare un cosiddetto equilibrio in un punto temporale stabilito è stupido e impossibile ed è, soprattutto, da ignoranti. L’unica cosa da fare è adattarsi ed evitare di facilitare le distruzioni che inevitabilmente le forze della natura compiono. Le hanno sempre compiute, basti immaginare le esplosioni di Thera, del Vesuvio o del Tambora, o la Piccola Glaciazione, o altri eventi catastrofici.

Un’altra notizia strombazzata pochi giorni fa è che il nostro astronauta di Paternò, Luca Parmitano, che ci regala bellissime immagini dell’Italia dall’alto dei cieli, vedesse “i deserti avanzare e i ghiacciai sciogliersi”. Ora, con tutta la pazienza del mondo, fermatevi a considerare queste poche parole. Armatevi di una mappa satellitare google e divertitevi a ingrandirla a poco a poco fino a fermarvi all’altezza di 408 km dal suolo, che è l’altezza orbitale della Stazione Spaziale Internazionale. Riuscireste a distinguere dove iniziano e finiscono i “deserti” da quell’altezza? Se provaste a ingrandire l’immagine a poco a poco, scoprireste che ciò che da tanto in alto sembra roccia o distesa di sabbia senza vita è invece popolato da alberi e macchie, e che deserto proprio non è, magari ci sono anche dei corsi d’acqua e dei bacini. Io queste false notizie le considero terrorismo psicologico, ma credo di avere i mezzi critici per distinguere quelle notizie come fake news. Provate a fare la stessa cosa che ho fatto io su google map, e vedremo se arrivate alle mie stesse conclusioni. Certo, non andate a cercare nel mezzo del Sahara o della Mongolia, dove si sa che c’è il deserto, ma in certe zone giallastre della Spagna, della Turchia o della stessa Sicilia. Scoprirete che il deserto sta altrove. E soprattutto, non considerate deserto ciò che invece sono sterminati terreni a seminativo, ossia coltivati, a cereali, a ortaggi, ad alberi da frutto, che in estate si tingono di biondo e che possono sembrare deserto senza esserlo. Un mandorleto in estate, nel sud del Mediterraneo, può sembrare un cimitero di alberi secchi. Ma non è deserto.

E se vi informaste anche meglio, scoprirete che, a dispetto degli incendi e delle distruzioni operate dall’uomo, le aree verdi del pianeta sono inaspettatamente aumentate, e lo comunica nientemeno che la NASA.

Esiste un libro fondamentale di uno storico del clima, Wolfgang Behringer, che considero assai saggio, dove la conclusione, dopo un’approfondita analisi di dati, cronache, testimonianze degli eventi climatici dalla preistoria a oggi, con grafici, immagini, studi, è che la cosa più utile da fare sia non dare le colpe a questo o a quello ma semplicemente adattarsi ai capricci del clima e che, alla fine, se la civiltà si è sviluppata sul nostro pianeta è stato proprio grazie ai periodi interglaciali, ossia quando faceva più caldo.

Se i ghiacciai della Groenlandia si scioglieranno può darsi che la parte meridionale dell’isola accoglierà davvero delle nuove foreste e che in altre parti del mondo accadrà la stessa cosa, mentre altrove magari il deserto avanzerà. Com’è sempre successo. Milioni di anni fa l’area corrispondente al Sahara, quando le terre emerse erano disposte diversamente, non era un deserto sabbioso, ma esistevano foreste e molta acqua, oggi scoperta in profondità sotto il manto incandescente del deserto e se, sempre lì sotto, ci sono depositi di petrolio significa che ancora prima esistevano, appunto, fitte foreste.

E quindi? Anche allora il cambiamento climatico era antropogenico?

La presunta rapidità con cui si pretende che il clima stia cambiando a causa delle attività umane come si può conciliare coll’ancora più estrema rapidità che congelò i mammut in Siberia, con ancora l’erba fresca nel ventre? C’era stata una rivoluzione industriale nella preistoria? Le attività umane avevano prodotto il cambiamento climatico?

Behringer illustra con pazienza e, soprattutto, con obiettività storica tutte le incongruenze delle misurazioni che vengono portate come leggi bibliche per il riscaldamento antropogenico, puntando, tra le altre cose, sul famoso grafico del bastone da hockey, mostrando come ci si arriva, ossia trascurando alcuni dati e privilegiandone altri. Che equivale a dire una falsificazione dei dati. E che alla fine la famigerata anidride carbonica, a cui oggi si dà la colpa del riscaldamento globale, come fanno Greta e i suoi adepti, forse non è proprio ciò che causa le suddette variazioni, ma una serie infinita di concause che nessuno si premura di spiegare accuratamente, concludendo di non lasciare a sciocchi inesperti di climatologia la narrazione terroristica del cambiamento climatico ma solo a persone che conoscano la storia, la geografia, e le scienze della Terra, senza separarle le une dalle altre né forzarle secondo la narrazione che si vuol fare. In parole povere senza allarmarsi e semplicemente prendendo atto che il pianeta si muove e che l’uomo si è sempre adattato alle variazioni e alle catastrofi climatiche. Cosa che si dovrebbe fare e che non si fa mentre si sfrutta a fini elettorali l’ignoranza delle masse su queste materie, terrorizzandole anziché renderle coscienti e responsabili e quindi agire di conseguenza verso un adattamento realmente possibile. Qualora si volessero aprire gli occhi piuttosto che lasciarsi andare alle superstizioni una lettura delle sue opere potrebbe essere assai utile. Divertitevi e rilassatevi.

 

© agosto 2019 Massimo Crispi

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