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Abolire il target: così cambia la comunicazione

24 Novembre 2016

Si è chiuso a Milano il “Festival della Comunicazione Sociale”. Tra i molteplici spunti di interesse evidenziati durante i dibattiti, spicca una prospettiva di cambiamento indicata per sottolineare un passaggio epocale: non è più il caso di pensare a come “colpire” l’uditorio, ma bisogna essere capaci di coinvolgerlo a livello profondo 

E’ possibile occuparsi di comunicazione lasciandosi alle spalle il concetto di “target”? A prima vista, l’ipotesi sembra credibile quanto provare a giocare a calcio senza pallone, ma in certe situazioni si deve avere il coraggio di superare quanto imparato durante negli studi e nella pratica quotidiana. Bisogna, in buona sostanza, liberarsi dalla pericolosa tentazione del “si è sempre fatto così” ed evitare di guardare alla mutevole realtà odierna con gli occhiali costituiti dalle abitudini passate.

L’invito ad abbandonare la parola “target” arriva da una figura autorevole come Rossella Sobrero, presidente di Koinètica, docente di Comunicazione Sociale all’Università degli Studi di Milano e di Marketing non convenzionale all’Università Cattolica, nonché membro del Consiglio Direttivo Nazionale di FERPI e del CdA della Fondazione Pubblicità Progresso. In questa sua ultima veste, Sobrero è stata anche una delle principali organizzatrici del Festival della Comunicazione Sociale, svoltosi al Palazzo Reale di Milano dal 21 al 23 novembre.

Il convegno “Il sociale visto dalle imprese”, in chiusura di manifestazione, è stato il più partecipato della rassegna e vi si è svolta l’analisi della case-history di “Hug”, una app ideata per favorire le donazioni a sostegno delle campagne sociali. Proprio durante il dibattito sul tema, Sobrero ha espresso il suo invito a cambiare radicalmente approccio: «La parola “target” dà l’idea di un bersaglio che bisogna andare a colpire. Sarebbe ora di abolirla e sostituirla con la locuzione “persone da coinvolgere”, che è molto diversa». 

Non si tratta di una mera finezza stilistica, perché cambiare modo di esprimersi significa anche cambiare modo di pensare. Come spiegato da Stefano Del Frate, d.g. di Assicom, negli ultimi anni il settore della comunicazione è letteralmente esploso, passando da poche decine a diverse migliaia di imprese attive. Fino al recente passato, le campagne sociali venivano fornite ai soggetti no-profit anche gratuitamente, visto che diverse agenzie di comunicazione le hanno utilizzate per farsi un nome attraverso idee creative destinate a fare scalpore.

Oggi, questo approccio “one shot” non funziona più ed è sempre più necessario un approccio integrato e relazionale. Le potenzialità della Rete hanno prodotto un forte information overload e, per distinguersi in questo oceano di rumorosi comunicatori, è necessario passare ad un’autentica condivisione dei valori e degli interessi di un pubblico sempre più formato da “consum-autori”, come li definisce Francesco Morace nel suo libro omonimo.

In un altro libro sul tema (“La comunicazione sociale”), Sobrero e la co-autrice Francesca R. Puggelli affermano che tra la comunicazione commerciale e quella sociale non ci sono poi grandi differenze e che lo scopo di entrambe deve consistere nel rendere il pubblico partecipe dei problemi, ma anche delle relative soluzioni.

Una campagna priva di una reale“call to action”, rischia invece di lasciare il pubblico spiazzato e infastidito. Se non si suggerisce un comportamento alternativo che funga da contromisura, ad esempio un atteggiamento più responsabile nei confronti dell’ambiente, si rischiano clamorosi fallimenti, con poche eccezioni. Come esempio virtuoso è stato invece portato il discusso ice-bucket challenge, la cui call to action era chiarissima ed ha consentito di raccogliere 220 milioni di dollari negli USA (e qualche decina di milioni di euro in Italia) a beneficio della lotta alla SLA.

Un altro tema sul quale è necessario entrare in stretta relazione con le persone è la rendicontazione di quanto fatto con i fondi raccolti. La mancanza di accountability è uno dei principali difetti di questo settore, soprattutto nella costruzione di una strategia di comunicazione realmente integrata.

Non a caso, la mancanza di fiducia è la principale ragione per cui soltanto il 33/38% circa degli italiani fa donazioni, come evidenziato dalla ricerca esposta da Alice Corinaldi, responsabile del progetto Do Solidale.

Proprio da questo punto di partenza è nata in Do Solidale l’idea della app “Hug” un sistema di donazione che si presenta moderno, facile, alla portata di tutti e soprattutto estremamente trasparente: non solo si viene a sapere come vengono usati i soldi, ma, volendo, si possono anche seguire i lavori in itinere, ricevendo periodiche comunicazioni via mail.

In un anno di attività, “Hug” ha raccolto fondi per 21 progetti sociali di vario tipo (dal sostegno ai bambini maltrattati alla ricostruzione di villaggi in Africa), senza chiedere alcun esborso agli enti beneficiari. Il sostentamento di Do Solidale, che è un’azienda con scopo di lucro, viene da un fee dell’8,2% su quanto effettivamente raccolto, a fronte di un costo-medio che per iniziative del genere si attesta intorno al 20%.

Un ottimo modo per far interagire pubblico e privato, profit e no-profit, ma con la fondamentale leva rappresentata da un modo nuovo di porsi nei confronti di quello che un tempo chiamavamo target.

 

 

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Un Ice Bucket Challenge di gruppo (da YouTube)
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