Musica

Verdi e Falstaff ospiti nella casa di riposo di Michieletto

5 Febbraio 2017

Un Falstaff in Casa Verdi: è incredibile che nessuno ci abbia pensato prima. Ci voleva Damiano Michieletto per mettere insieme le ultime due opere di Verdi: quella musicale e quella filantropica, Falstaff da una parte, la casa di riposo per musicisti dall’altra, ricostruita perfettamente in scena da Paolo Fantin, in anticipo sul film Quartet con Maggie Smith – spettacolo visto a Salisburgo nel 2013, alla Scala fino al 21 febbraio.

Per Verdi il péché de vieillesse doveva essere comico. Anche con una vita vissuta nelle logiche del melodramma, il pensiero era segretamente rivolto alla commedia, fin dal fiasco giovanile di Un giorno di regno. Vero autore in cerca di personaggi, convinto poi in vecchiaia da un grasso miles gloriosus in pensione: Falstaff, cavaliere inglese con macchia, impunemente a zonzo tra commedie e drammi storici scespiriani, tra comari cinguettanti e marziali giochi dei potenti. “Sir” per titolo e fanfarone per vocazione, con l’inevitabile conclusione amara in solitudine, inconsolabile dopo il ripudio del suo regale compagno di bagordi, alla storia Enrico V – ma in Verdi manca questa parte della vicenda.

Eppure a sorpresa l’ultima opera di Verdi non è musicale, ma diventa il primo passo per un welfare di categoria, all’epoca pressoché inesistente. Ovviamente si tratta di Casa Verdi, non ospizio ma, più educatamente, casa di riposo per chi cade in povertà potendo vantare una gioventù trascorsa tra il palco e la buca di un teatro. Un progetto sociale immaginato con lungimiranza per un terreno acquistato «fuori porta Garibaldi», oggi ben servito con linea metropolitana e grattacieli sempre più fotogenici.

Michieletto coglie così questa doppia intenzione che segna le ultime mosse di Verdi dalle stanze del Grand Hotel et de Milan. E costruisce uno spettacolo su un baritono attempato talmente servo di scena che, ospite in Casa Verdi, si ribella a infermieri e allucinazioni senili che lo ricoprirebbero volentieri con un lenzuolo come un mobile dimenticato, quasi gli avessero già fatto il funerale, come in effetti faranno come burla dell’atto finale. Così la recita diventa un canto del cigno per Falstaff, quando esibisce vecchi album di foto di trionfi passati, prima di chiudere l’opera letteralmente abbracciato alle note di Verdi: la doppia vita dell’artista, diceva Cukor.

Comicità sì, ma sempre sotto voce – a differenza della recente versione di Robert Carsen – per preparare il commovente finale di partita di Falstaff, di Verdi, del melodramma stesso. E una nobile nostalgia per il teatro diventa nostalgia per la vita stessa. Una vita che è in gran parte alle spalle in questa atmosfera sospesa di Casa Verdi, i cui ospiti mantengono negli occhi il bagliore delle luci di proscenio. Protagonista non poteva che essere Ambrogio Maestri, già oltre il suo duecento cinquantesimo Falstaff, giunto ormai a un livello di immedesimazione iper stanislavskiano. Zubin Mehta dirige in sintonia con l’anima malinconica dello spettacolo: accompagna ogni idea con percepibile tranquillità, a volte persino un poco sotto tempo, in cerca del Requiem nascosto dentro ogni commedia.

Foto di Brescia/Amisano – Teatro alla Scala.

 

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