Costume
Vecchioni in concerto: ieri ho visto un poeta
In una bella e fresca serata di fine agosto ho assistito ad un concerto dell’amato Roberto Vecchioni a Sapri in una piazza stracolma.
Conosco le canzoni di Vecchioni, ma ascoltarlo dal vivo è tutt’altra musica.
Vecchioni ha garbo, stile, sa mantenere la scena come un attore consumato.
Ma c’è qualcosa di particolare, di unico, di personale che Vecchioni comunica: la sua capacità di fare letteratura.
Fare letteratura è dei poeti: narrano la poesia con rimandi storici,con descrizioni di luoghi, con aneddoti insoliti a sentirsi, con spiegazioni dettagliate mai rinvenute nei libri.
Vecchioni è finissimo cantore che cura la parola.
La parola ha la forza di evitare le guerre.
La parola infatti è la spoletta del telaio per ricamare una poesia e per interporre un ragionamento, per scoprire e gridare al vento un’invenzione, per narrare un racconto alla sera al tuo bimbo e cantare una canzone alla tua amata o per convincere dell’innocenza di una colpa già scritta ed inesorabilmente data.
La parola accarezza il cuore dell’altra, è la Cura per lei, compone il dialogo della vita.
Si, perché se parlassimo invece di gridare, avremmo più pazienza, comprenderemmo che c’è sempre una via d’uscita, un sentiero ritrovato, un corridoio di pace, una mediazione possibile.
Questo ha detto Roberto Vecchioni al fresco di Sapri.
La parola, se accompagnata da giuste rivendicazioni, è gridata per scacciare le ingiustizie e rendere migliore il mondo, quando si propugnano nuove idee.
La parola scrive i libri e fa le rivoluzioni, riempie le piazze e canta nei concerti tra i giovani che vogliono cambiare il mondo.
È il sorriso di Dio che dà agli uomini la ragione, declinata con il verbo sapiente, unica ed irreversibile nel creato, affinché lo possiamo abbracciare, descriverlo nella sua profonda intensità e goderne delle sue nutrite e preziose cose.
Non è possibile immaginare un mondo senza parole, senza narrazione della Storia.
Ha detto Vecchioni: “La parola è un faro senza isole che spande luce in giro. E le sento, le voglio, sono mie, acqua tra le mie dita, gocce a lavare il viso, meraviglia a me stesso di sentirle di seta o di lino o di grasso cotone, raspanti e lievi all’incontro che modella al suono e al canto degli accenti, per dire ora riso ora pianto. Vivo con loro, me le porto sotto le coperte e ci gioco come alla carezza di donna ritrovata e pianta, perché tu non puoi lasciarmi, parola, perché ogni parola è una vita che mi cambia”.
Ed ha narrato di Leopardi, della lettera di una ragazza curda che odia la guerra, di Arthur Rimbaud.
Ed ha tessuto l’elogio delle donne che portano dentro emozioni uniche, ed ha richiamato la nostalgia per “Luci a San Siro”.
E della lirica “Vincent” dedicata a Van Gogh:
“Dolce amico mio
Fragile compagno mio
Al lume spento della tua pazzia
Te ne sei andato via
Piegando il collo come il gambo un fiore
Scommetto un girasole”.
Ed ha cantato “Sogna ragazzo Sogna”, raccontando di quando lasciò l’insegnamento l’ 8 giugno 1999, per donare un testamento di gioia e di incitamento alla ricerca della felicità ad una pletora di ragazzi cui aveva dedicato una vita intera con le sue sontuose lezioni.
Si è commosso e mi ha fatto commuovere: ho acceso un sigaro per nascondere con l’esalazione del fumo le mie lacrime che erano di gioia intensa, perché ho visto un poeta.
La poesia riesce a domare il dolore.
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