Musica
Una Salome alla Scala
Ecco che cosa scrivevo l’anno scorso di un’edizione olandese (Dutch National Theatre) della Salome di Strauss diretta da Daniele Gatti, regia di Ivo van Hove, nel giugno del 2017, ne esiste un bel dvd di cui allego la copertina:
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Richard Strauus, Salome
Royal Concertgebouw Orchestra
Daniele Gatti, conductor
Ivo van Hove, stage director
François Roussilon, film director
RCO 1 DVD
Teatro, teatro, teatro! Un accordo perfetto tra musica e scena. Una Salome contemporanea mozzafiato. Ivo van Hove fa recitare gli attori cantanti seguendo la musica nota per nota. E sono tutti bravissimi, a cominciare dalla straordinaria Malin Byoström, nel ruolo di Salome. E Daniele Gatti rende la tensione musicale, la violenza, ma anche l’estenuata dolcezza in maniera magnifica. Un’edizione di riferimento, imperdibile.
Ma se ne legga la recensione di Guy Cerqui, qui sotto:
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Veniamo, ora, invece, allo spettacolo del Teatro alla Scala.
Ora, in Italia sembra che non si possa eludere o l’inno o l’insulto. Michieletto, anni fa, era oggetto di insulti, e io fui tra i primi a riconoscerne invece l’intelligenza teatrale (un bellissimo Romeo e Giulietta di Gounod alla Fenice di Venezia nel 2009). Ed è indubbio che anche nello spettacolo scaligero, Michieletto mostri più di un segno di questa intelligenza. Ma sembra solo sfiorare il dramma, non coglierne la concezione dirompente, che non è tanto il dramma di famiglia – anche! e Amleto, mi dispiace, c’entra ben poco – ma l’assenza di un confine nell’amore tra immaginazione e realtà, sadismo e sensualità, brama di possesso e tenerezza, perversione e quotidianità. Sono gli anni in cui esplode l’avventura della psicoanalisi, ed è lo stesso Strauss a dichiararsene attratto. Come farà per Elektra – la definisce “un caso di isterismo!” – appoggiandosi al testo di Hofmasthal in cui ciò era già evidente. Per Salome il testo è di Oscar Wilde, scritto in francese per Sarah Bernhardt. Ma c’è un particolare non trascurabile: Salome non è “perversa” o, se mai, la sua perversione sta nel fatto di non credere perverso nessun desiderio, nemmeno quello di possedere una testa come fosse una caramella golosamente desiderata. Strauss penetra con grande finezza questo aspetto del personaggio. Un drammaturgo e un musicista meno grande di lui avrebbe scritto musica bombastica, terrificante, catastrofica per la scena del bacio sulla bocca della testa mozzata. Strauss invece compone una musica dolcissimo, un inno d’amore più dolce, invadente, sensuale del dialogo notturno di Tristano e Isotta composto da Wagner. Il sublime, sublime tragico, della scena sta proprio in questo: che l’orrore è che l’orrore possa essere cantato con la musica di un bacio di due ragazzi innamorati. Potrebbero essere Romeo e Giulietta. E Salome è una ragazza innamorata. Wilde direbbe che l’amore uccide sempre chi ama. Se non si entra in questa sottile distinzione tra ciò che è esplicito e ciò che è implicito si perde il senso della scena, ma soprattutto si perde il senso di ciò che arte, che non è mai l’esplicito, ma sempre l’implicito. Ciò che non si dice è sempre più terribile di ciò che si dice, l’allusione è più devastante della scoperta della verità. Ammesso poi che questa verità debba essere quella di un interno borghese. Allora Ingmar Bergman lo sa fare meglio di chi ritiene che si debba esplicitare sempre la quotidianità del pubblico. Perché Bergman è allusivo, simbolico (senza citazioni estetizzanti), implicito, anche quando inscena drammi borghesi. Il testo di Wilde fu tradotto in tedesco da Hedwig Lachmann. Michieletto a tutto ciò sembra girarci intorno, perfino con gusto prezioso, come la citazione dell’Apparition di Gustave Moreau. Bellissima la processione di angeli con le ali nere, allusioni forse a una perduta innocenza, e più diabolicamente, all’attrazione fatale di un oggetto quasi asessuato, ma in realtà un buco nero di esplosiva sensualità. La colata di sangue dalla testa aureolata, come può essere un bambino, una bambina, un adolescente, i fili sanguigni che pendono dalla candida veste tirata in alto. Ma è nella recitazione e nel canto dei personaggi che tutta questa sensualità non salta fuori, vuol dire che la reprimono, che l’incoscio la proietta fuori? Lo spettacolo pone molte domande, e questo è senza dubbio un merito, la prova che è teatro pensato, che c’è un’idea e non una trovata, alla base. Ma si ha l’impressione di uno scollamento tra ciò che i personaggi dicono e soprattutto cantano, e ciò che fanno. Gli interpreti, del resto, pur bravi, e tutti, Elena Stikhina (Salome) al debutto scaligero, Wolfgang Koch come Jochanaan, Gerhard Siegel come Herodes e Linda Watson come Herodias, non dimostrano, nessuno, però, una particolare incisività, una compiuta appropriazione del personaggio. E quanto all’orchestra, e all’interpretazione di Riccardo Chailly, è forse il punto più debole dello spettacolo, e forse, chi sa, anche la causa per la quale la messa in scena non convince del tutto. Sembra quasi, infatti, che Chailly non voglia oltrepassare le soglie di una corretta lettura. Ma per una partitura incendiaria come questa ci vuole ben altro. Ci saranno stati certo anche i problemi dei distanziamenti, ma l’impressione, anche qui, è piuttosto di una lettura esteriore, distaccata, del testo musicale. Insomma, Chailly non ne appare coinvolto e non coinvolge. Chi sa se una rappresentazione, una vera rappresentazione, a teatro pieno, con il pubblico, avrebbe modificato l’assetto, e suscitato, negli interpreti e nel pubblico (ora distanziato davanti a uno schermo) maggiore partecipazione sia intellettuale sia emotiva.
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