Musica
Una nostalgia cosmica e struggente. Il primo, omonimo album di Liberato
9 maggio 2019, come da copione (la data, senza l’anno, richiama il titolo del primo singolo di questo ormai progetto di culto) esce finalmente il primo album di Liberato. Ma chi è costui? A dire il vero non ci interessa più di tanto. Ci basta sapere che, ciò che con il suo nome è stato finora prodotto, sia una delle cose musicalmente più intriganti della recente scena italiana.
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Quello che in particolare credo sia giusto far capire è che la musica di Liberato debba a tutti i costi essere al centro della questione. Va bene il progetto multimediale – i video di Francesco Lettieri, che sono senza dubbio un grande racconto (si veda la recente serie “Capri Rendez-Vous”) che da sempre accosta l’evolversi delle narrazioni sonore del progetto -, va bene l’alone di mistero con il quale si prova a incrementare esponenzialmente l’interesse verso l’opera, ma è la cosa-in-sé che vale la pena di osservare (in questo caso udire).
La musica di Liberato è infatti “vivibile” al di là di ogni costruzione che le ruota attorno. Il disco da poco uscito ce lo dimostra: se mettessimo assieme tutti i pezzi ci renderemmo conto che la coerenza è tanta e l’idea di un suono non certamente nuovo, ma che sa dove incrinarsi per creare un’increspatura dalla quale si irradi una particolare luce, funziona alla perfezione.
In questo disco si trovano anche i singoli usciti nel 2017 e nel 2018 ed è possibile dire che il lavoro è perlopiù un compendio di ciò che il Liberato sound ha rappresentato in questi ultimi due anni: apre dunque, non casualmente, le danze Nove maggio, che con le sue sospensioni dubstep e i suoi sospiri ci ricorda da quale connubio sia potuta nascere ogni cosa. Si prosegue con Intostreet che amplifica la dose con voci “pitchate” ed evoluzioni EDM. Si chiude un terzetto iniziale, che pone l’accento sul percorso fatto attraverso i singoli, con Je te voglio bene assaje, che richiama fin dal titolo il debito profondo nei confronti della tradizione napoletana.
Perché in fondo è questo, Liberato: l’idea di guardare oltre tenendo strette le proprie radici, il bisogno di raccontare una Napoli e una napoletanità che siano il più possibile internazionali (anche se in parte fittizie) facendo leva su quelle sensazioni tipicamente suscitate da un ritratto che condensi il volto più romantico dell’esistenza. In questo senso, la lingua utilizzata è fondamentale: in parte italiano regionale, in parte standard, in parte dialetto, si contamina, quando può e deve, con espressioni anglofone, francofone e ispaniche che centrifugano ogni tipologia di stereotipo fraseologico d’amore (e non solo) per creare qualcosa di estremamente fascinoso.
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Uscito dal primo trittico, il disco prosegue sciorinando tutto il resto del repertorio, nel quale possiamo trovare cose come il reggaeton sensuale di Oi Marì, la ballad r&b Gaiola (che rispetto al singolo si ritrova accorciata e riarrangiata), il future bass screziato nineties di Tu me faje ascì pazz’, l’inno dissezionato di Guagliò. Ma il capolavoro del disco è senza dubbio Nunn’a voglio ‘ncuntrà, un pezzo che muta forma, spinge all’estremo l’idea progressiva di contaminazione, accostando beat chiesastici a una tammuriata, saturazioni synthetiche a scheletriche strutture alternative r&b.
A chiudere il viaggio non poteva non esserci un pezzo come Tu t’e scurdat’ ‘e me, che mette in risalto una delle parti predominanti del progetto Liberato: quell’idea che la nostalgia sia il motore che muove, e probabilmente ha sempre mosso, la canzone napoletana. Il fatto è però che qua si perde il senso più struggente di quel modo di concepire il ricordo, qua tutto acquista un valore quasi cosmico. È come se si sbriciolasse la parte più disperata, e in alcuni casi patetica, di quella tradizione e rimanesse un’astrazione che è forse la prospettiva attraverso cui poter dire che il tormento può essere vissuto anche reinterpretandone le forme espressive per i tempi che corrono. Una sorta di appocundria del futuro, di gelido sgomento da fine dei tempi.
“Liberato” è dunque un’opera pienamente riuscita, che fa capire di aver compreso le mode per poterne creare una tutta sua e dirci che – nel caso non ce ne fossimo accorti – la canzone napoletana è già da un po’ proiettata (per potersi difendere nel migliore dei modi) nel tempo che verrà.
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