Musica

Una idea del mondo

4 Febbraio 2024

Dieci anni fa moriva, il 20 gennaio, Claudio Abbado. L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia lo ricorda con un incontro tra musicisti, intellettuali, gente di teatro, dal titolo Claudio Abbado tra utopia e realtà, e con un concerto. Nel 1874, dunque 150 anni fa, il 22 maggio il Requiem di Verdi, ancora fresco d’inchiostro, fu diretto dallo stesso Verdi nella Basilica di San Marco a Milano per commemorare la morte di Alessandro Manzoni, morto da un anno. Antonio Pappano, nel 2024. ha diretto lo stesso Requiem, ma per commemorare la morte di Claudio Abbado. L’incontro ha occupato tutta la giornata, dalle 9.30 alle 17.30. Si è visto un bellissimo documentario di Daniele Abbado, figlio di Claudio, con preziose interviste e commenti dello stesso Claudio Abbado e di musicisti e uomini di cultura che lo hanno conosciuto o hanno collaborato con lui. Commovente e istruttivo. Significativa la riflessione di Daniel Barenboim che in qualche modo ha seguito e segue principi e progetti assai simili a quelli di Abbado, a cominciare dall’utopia di fondare un’orchestra di isreliani e palestinesi, il West-östlicher Diwan Orchester (in inglese Wets-Eastern Divan Orchestra, sede a Berlino, Französiche Strasse). Il nome è tratto da una famosa raccolta di bellissime poesie di Goethe, il Divano Occidentale-Orientale appunto, in cui sono riunite la poesia d’ispirazione occidentale e quella orientale, la poesia tedesca e quella persiana. Il nome del grande poeta persiano Hafiz entra, può darsi, così per la prima volta nella cultura europea. Anche se la poesia araba e quella persiana erano già state le matrici che avevano ispirato la poesia dei trovatori. Ecco: culture che s’incontrano invece di scontrarsi. Anche se sconvolte da permanenti conflitti: le crociate che assumono nei secoli diverse facce, e da ultimo quella della rapina coloniale. Claudio Abbado di orchestre ne ha fondate sei, dalla Filarmonica della Scala all’Orchestra Mozart, alla Mahler Orchestra, al Gustav Mahler Jugendorchester (orhestra giovanile Gustav Mahler – in tedesco Orchester è nome neutro), all’Orchestra del Festival di Lucerna, composta da membri della Mahler Chamber Orchestra. Tra i progetti proposti da Abbado, come sfida insieme politica e culturale al mondo non solo musicale dell’Europa, è quasi l’unico che sia stato appieno realizzato e gli sopravviva. Invece l’idea di un’educazione musicale per tutti aspetta ancora una risposta dalla politica, soprattutto dalla politica italiana. Così come c’è poco da arricciare il naso sulla sfida di portare la musica nelle fabbriche e nelle periferie. Non era populismo o ubbia radical chic. L’idea che si aveva dell’utopia negli anni che vanno dai 60 agli 80 del secolo scorso non era tanto un’idea irreale, visionaria, da intellettuale che sogna un mondo ideale, quanto un progetto reale di azione per modificare la società nella direzione di una effettiva uguaglianza dei diritti, tra i quali c’è anche il diritto alla cultura. Ma non di una cultura semplificata, comprensibile ai diseredati del mondo, bensì la stessa delle classi dominanti. Populistica è se mai proprio l’idea attuale di semplificare gli aspetti e i contenuto più complessi della cultura per renderli più facili, più accessibili al “popolo” non acculturato. O diversamente acculturato. No: in fabbrica si fanno ascoltare i due concerti per pianoforte di Brahms, gli stessi che ascolta il borghese elegantemente vestito nelle sale da concerto. E li si fa ascoltare diretti da Claudio Abbado e suonati da Maurizio Pollini. Si tratta di eseguire alla lettera un’indicazione di Marx. La classe che scalza la borghesia se vuole realmente assumere il potere che essa deteneva sull’intera società, perché l’operazione abbia successo non deve della borghesia distruggere anche la cultura, ma deve anzi appropriarsene per usarla contro di essa. Se la Rivoluzione Francese ha predicato l’uguaglianza, che uguaglianza sia anche culturale, senza distinzioni di classe. Proprio il contrario di ciò che oggi va predicando la cancel culture. Nella cultura di ogni classe dominante esistono gli strumenti per demolirne il dominio. In fondo gli stessi principi della cancel culture nascono dal nuovo senso che ha acquistato il concetto di diritto nella società borghese e liberale. Tutto ciò, esemplarmente, appare dimostrato dall’opera di Armando Punzo, che nella sua conversazione dal titolo “Un’idea più grande di me”, e soprattutto dagli spezzoni delle proiezioni di filmati delle opere rappresentate, porta alla luce come si debba agire all’interno del carcere. Soprattutto come si debba farlo con i soggetti del carcere, i carcerati. Il teatro diventa davvero allora la scena dove i conflitti si chiariscono e l’azione per modificare l’esistente prende l’avvio. ma non perché si comunichi un messaggio politico, bensì perché politico diventa fare teatro nel carcere. Gli apparati politici devono essersene accorti, accorti di quanto eversiva, pericolosa possa essere l’operazione, se ci hanno messo 22 anni a permettere che nel carcere di Volterra si potesse costruire un vero teatro. Ma ciascun intervento degli incontri aveva un suo motivo di interesse. Troppo lungo citarli tutti. E la adeguata regia del moderatore Pietro Del Soldà. Colpiscono i “nuovi percorsi per la società” di Nigel Osborne, come far nascere la musica da situazioni che sembrerebbero escluderla. Come il corpo ne sia un elemento indispensabile, anche nelle situazione estreme, gli orfani della guerra in Ucraina, le donne stuprate in Bosnia: sorgono canti bellissimi, ma impregnati di una sofferenza altrimenti indicibile. O la musica come liberazione da un situazione di insuperata e insuperabile costrizione, come quella raccontata dal palestinese Ramzi Aburedwan. Angelo Foletto conferma, poi, come appunto, la musica fosse per Abbado un’azione sociale, che va restituita alla società in tutta la sua pienezza. Quindi anche con l’eccellenza che l’è dovuta. Eraldo Affinati, per quanto riguarda l’insegnamento dell’italiano ai non italiani, agli immigrati, dunque, Roberta De Monticelli, su che cosa sia il valore del diritto, Maria Majno, sul sitema Abreu, Marco Motta, radio3 scienza, sull’accostarsi consapevolmente, scientificamente, e dunque con politica corretta, ai problemi dell’ambiente, hanno illustrato da diverse prospettive quanto sia illusoria la divisione tra arte e società, tra scienza e politica, e così via, e come sia lo stesso stare al mondo, come starci, e perché, il problema centrale che oggi dobbiamo affrontare. Sembrava di ascoltare uno slogan oggi passato di moda, che tutto è politica, anche fare bene il lavoro che si è chiamati a fare. Ma il punto non è, forse, che sia passato di moda, bensì che i guai di oggi nascono propria dal fatto di non averlo tenuto in considerazione.

Antonio Pappano

Il Requiem di Verdi veniva a chiudere la giornata con un grido – ahinoi – d’inconsolabile disperazione. La situazione attuale delle cose del mondo sembrano motivarla. Come scrive il poeta “anche la speme, ultima dea, fugge i sepolcri”. Ma Antonio Pappano sembra davvero avere tratto fuori dalla partitura del Requiem di Verdi il suo messaggio più segreto: un urlo di terrore, certo, davanti alla morte, ma più ancora un grido d’indignazione per l’esistenza stessa della morte. Il sussurro iniziale dell’orchestra e delle voci nel Requiem aeternam e l’irruzione stridente del tenore nel Kyrie (Beethoven, nella Missa Solemnis, fa qualcosa di analogo quando nel Kyrie fa irrompere il soprano sul registro acuto) già annunciavano in che direzione sarebbe andata tutta l’interpretazione: nell’esasperare i contrasti tra una tenerezza impossibile e una reale, schiacciante, opprimente violenza. Il colpo della gran cassa, nel Dies Irae, si fa quasi segno del significato di tutta la messa. Che non a caso finisce con il terrificante e parlante “libera me… libera me..” appena sussurrato dal soprano mentre l’orchestra si dissolve nel pianissimo e nel silenzi da cui era partita all’inizio. Splendida la prestazione dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia diretto da Andrea Secchi. Magnifici i quattro solisti, Masabane Cecilia Rangwanasha, soprano; Elina Garanča (indimenticabile il timbro caldo, ma a volte anche lancinante della sua voce); SeokJong Baek, tenore; Giorgi Manoshvili, basso. Un’ovazione calorosa accoglie tutti alla fine. E per Antonio Pappano, non più direttore principale, ma “emerito” dell’orchestra, il pubblico esplode addirittura in applausi trionfali, ritmati come in una marcia di trionfo. Tutto giustificato. La lunga giornata non poteva conoscere conclusione migliore. Michele Dall’Ongaro, Presidente dell’Accademia, la Fondazione Claudio Abbado possono essere felici di una così riuscita riflessione sullo stato “dell’arte”, vale a dire della musica in Italia. E nel mondo. Perché qui stava il nodo dell’esempio di Claudio Abbado: non separare mai dal suo ambito sociale la musica e l’arte, in un verso, e dall’altro non subordinare nemmeno il senso e il valore della musica e dell’arte ai calcoli dell’opportunità sociale. Un intreccio complesso di relazioni tra cultura e società. Qualunque intervento che disordini o comprometta una parte di questo delicato intreccio rischia di rovinare tutto l’insieme. Una lezione che l’Italia di oggi dovrebbe, più che mai, tenere presente. Anche se da più parti non se ne dà per inteso. Anzi, sembra procedere in senso contrario.

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