Musica

Un viaggio sullo Sputnik di Luca (Carboni)

1 Agosto 2018

Approfittando della convalescenza che mi tiene sospesa tra letto e divano, sono finalmente riuscita ad ascoltarmi per bene l’ultimo album di Luca Carboni, Sputnik, uscito lo scorso 8 giugno.

Quando avevano iniziato a passare in radio “Una grande festa” ero rimasta divertita ma non fino in fondo convinta perché, anche se l’abbinamento pop festaiolo-estate resta una coppia di amanti che sanno ancora come tenersi botta a vicenda, la critica alla superficialità sociale e al debellamento ossessivo dei darkside su una ballata da spiaggia mi aveva lasciata un po’smarrita rispetto alla profondità che resta, per me, l’arte principale di Carboni.

Premettiamo che il cantautore bolognese rientra tra i miei cantanti italiani prediletti ma, al di là dei gusti, è pressoché doveroso riconoscergli la capacità estrema di dare forza alla fragilità dell’esistenza: Carboni rende umana la nostra umanità, mi verrebbe da dire, e fa di un amore, mai scontato, mai banale, la forza motrice del vivere quotidiano e la pulsione a essere migliori per sé stessi e per gli altri. Lo smarrimento è parte del percorso ascoltando Luca, né vergogna, né colpa; il fuori è meno lontano di ciò che sembra e noi siamo di più di quello che crediamo.

L’avvicinamento reciproco (Carboni è loro ispiratore per loro stessa ammissione) ad alcune delle firme più note del più o meno indie panorama musicale italiano di cui Luca si è avvalso per Sputnik, in maniera più insistente di quanto già accaduto con Pop Up, è uno dei tratti distintivi di questo nuovo lavoro discografico: Calcutta firma con Luca “Io non voglio”; “L’alba” è scritta con Gazzelle; co-firmata con Giorgio Poi “Prima di partire” e i feat. con Alessandro Reina per “Amore digitale” e “I film d’amore”. Non c’è un tentativo di strizzare un mendace occhiolino a dove tira il vento e nemmeno un disconoscimento al Carboni di una volta, tutt’altro; c’è l’abilità di adattare il tiro lungo il mirino che si vuole colpire senza mai perdere la solidità elastica di ciò che si è.

“Prima di partire” è quella che ho già ascoltato dieci volte perché ha qualcosa degli anni ’90 e perché torna prepotente il mare: Ti prego portami sul mare/ Portami sul mare/Prima di partire/Prima di partire/Hai detto portami a ballare/A ballare vicino al mare; “Io non voglio” rimanda a quel senso di non colpevolizzazione che avevo prima adorato in “Chiedo scusa”: Per fortuna c’è un mucchio di gente che io non amo; e poi esplode in un Io non voglio fare l’amore/ Voglio un miracolo/ Un cambiamento radicale/Io non voglio/Carezze del sole/Io voglio un brivido/Voglio essere totale/Che sia stupendo anche sbagliare.

“Amore digitale” e “Alba” sono quelle che insieme a “Una grande festa” più si pongono come cartina al tornasole di una situazione contingente che rischia, (sempre che già non lo sia) di diventare totalizzante e totalitaria ma che Carboni, ancora una volta, riesce a descrivere e far rivivere musicalmente con delicatezza e ironia nei primi due casi e con leggerezza nel terzo.

Non sono ancora riuscita a fare una classifica dei pezzi: anche “Due” e “Ogni cosa che tu guardi” sono intrise di Luca che sceglie di chiudere con “Sputnik”, una ninna nanna dolce che porta via e lascia la voglia di ripartire (e lì ho capito perché tutto ebbe inizio con “Una grande festa”).

Luca è lo stesso e Sputnik è un passo avanti che lascia l’impronta di Carboni, per i nuovi e per chi, come me, non si è ancora stancato di seguirlo.

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