Musica

Un sorriso tra le lacrime per il Rigoletto di Luca Salsi

5 Dicembre 2016

«Povero Rigoletto» dice Marullo compatendo il gobbo, deforme buffone di corte. Per nulla da compatire invece sono gli spettatori dell’Opera di Roma, che per questa ripresa del capolavoro di Verdi – la seconda nell’allestimento di Leo Muscato della stagione 2013/2014 – possono contare su un baritono come Luca Salsi, tra le voci di oggi una delle più amate e delle più “verdiane”, qualunque cosa significhi questo aggettivo inafferrabile.

Come si è trovato nello spettacolo di Leo Muscato?

Con Leo si lavora benissimo. Certo, non abbiamo avuto molte prove, tenuto conto che proprio negli stessi giorni si stava preparando anche Tristano (inaugurazione della nuova stagione d’opera, ndr). Però il fatto che lo spettacolo sia scarno, tutto giocato su tende e luci, ci ha permesso di concentrarci meglio sulle dinamiche attoriali, l’aspetto su cui il regista ha insistito di più e che permette di approfondire i personaggi. L’intesa c’è stata perché Leo riesce sempre a darci tante letture diverse per ogni scena.

La partitura di Verdi è ricchissima, ma quale tra i tanti passaggi rappresenta di più il suo personaggio, quel dramma di padre-buffone in perenne affanno tra padrone e figlia?

Penso sempre che la svolta arrivi nel secondo atto, a metà di Cortigiani, vil razza dannata. Qui Rigoletto cede: «Ebben io piango» dice, esprimendo di colpo tutta la debolezza trattenuta fino a quel momento. È la prima volta che piange, durante il monologo Pari siamo del primo atto lo aveva detto: «Il retaggio d’ogni uom m’è tolto…il pianto!». Ecco perché in questo punto scelgo di cantare quasi con il sorriso, perché finalmente il personaggio può togliersi la maschera da buffone: ed è un sollievo, una liberazione. Invece nella prima parte Rigoletto è del tutto negativo. Anzi, forse più si riesce a renderlo cattivo all’inizio, più la sua umanità diventa coinvolgente nel corso dell’opera. Un’umanità nascosta che sta tutta nel rapporto con la figlia Gilda.

In Rigoletto c’è una controversia per certi acuti di tradizione non previsti dall’autore: lei come si pone di fronte alle questioni filologiche, di cui si continua a discutere?

Penso che la filologia sia importante ma che non debba mai essere fine a se stessa. Il volere dell’autore mi interessa, ma sempre in funzione della drammaturgia del personaggio. Ad esempio l’acuto di tradizione su «È follia!», alla fine di Pari siamo, teatralmente non funziona. Innanzitutto è un passaggio intimo e la conclusione andrebbe quasi sussurrata, ma poi un urlo non avrebbe senso nemmeno dal punto di vista della regia: Rigoletto è davanti alla casa dove nasconde la figlia, perché dovrebbe rischiare di farsi scoprire gridando? Invece il La bemolle che chiude Sì, vendetta alla fine del secondo atto mi sembra coerente con lo sviluppo della scena.

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Quali sono i suoi Rigoletti di riferimento?

Sicuramente Carlo Meliciani, che è stato anche mio insegnante ed è arrivato a fare Rigoletto cinquecento sessanta volte. Poi Carlo Galeffi, per la nobiltà del canto.

Vuole dirci qualcosa del Rigoletto che farà ad Amsterdam con la regia dell’imprevedibile Damiano Michieletto?

Non so nulla su come sarà lo spettacolo, ma con Damiano ho già fatto a Bologna Un ballo in maschera e so che i suoi spettacoli non vanno mai contro quello che si deve cantare. In ogni caso non considero un problema eventuali attualizzazioni.

Altro appuntamento importante sarà l’apertura del Teatro Massimo di Palermo con Macbeth, regia di Emma Dante.

Macbeth è senza dubbio la mia opera preferita, per la sua scrittura che mi fa sentire a casa: quasi non devo fare sforzi, a differenza di Rigoletto che per me è un po’ acuto. Ma entrambi i ruoli li considero meravigliosi e sono convinto che con l’età non potranno che migliorare. Una regola del teatro è che tante più esperienze di vita si portano sul palcoscenico, tante più sfumature il pubblico potrà cogliere.

 

Insieme a Luca Salsi cantano la brava Lisette Oropesa, Gilda dalla Louisiana, e il tenore Ivan Magrì che sostituisce l’indisposto Piero Pretti e sostiene correttamente la parte del Duca. Lo spettacolo di Leo Muscato funziona con le sue trasparenze, i suoi abiti vagamente Belle Époque e il fazzoletto scespiriano, leziosamente rosa, testimone inanimato del tragico destino di Rigoletto. Qualche goffaggine in certi momenti coreografici: sia a due, nella cabaletta Addio, addio tra gli amanti in affanno, sia d’insieme, con il coro che improvvisa un Gioca jouer per raccontare al Duca il rapimento di Gilda. Debutta sul podio di Roma il milanese Michele Gamba, che dirige con intelligenza e controllo: il gesto è chiaro e la risposta dell’orchestra asciutta.

Foto ©Yasuko Kageyama

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