Musica
Un barocco inaspettato al Festival di Aix
È stato il repertorio barocco al centro del Festival di Aix-en-Provence di quest’anno, in cui normalmente Mozart la fa da padrone, con tre nuove produzioni di Rameau, Gluck e Monteverdi: rispettivamente l’oratorio perduto e fantasiosamente reinventato Samson, Iphigénie en Aulide e Iphigénie en Tauride, e Il ritorno di Ulisse in patria. Si darà conto delle prime due.
L’attesa era soprattutto per il progetto monstre di riunire in un’unica serata le due Ifigenie di Gluck, in Aulide e in Tauride. Idea che il regista Dmitri Tcherniakov e il direttore artistico Pierre Audi avevano condiviso fin dall’insediamento di quest’ultimo, e che finalmente è approdata sul palcoscenico del Grand Théâtre de Provence con la direzione di Emmanuelle Haïm e un ottimo cast guidato da una Corinne Winters in stato di grazia.
Tcherniakov lavora sul dramma famigliare degli Atridi, ambientando le due opere in un interno borghese in cui il pubblico può sbirciare attraverso dei tulle trasparenti. Nella seconda parte rimangono solo i contorni della casa, led che delimitano le varie stanze e si illuminano a seconda della memoria emotiva e degli incubi di Ifigenia, ormai invecchiata, coi capelli bianchi, dimenticata in Tauride mentre ad Argo i suoi genitori si uccidevano a vicenda.
Se nella prima parte, in Aulide, il palcoscenico si popola di personaggi costantemente sopra le righe, che non fanno che ingannare se stessi e gli altri in attesa che il vento ricominci a soffiare per partire per la guerra, nella seconda il tempo sembra come sospeso, finché non irrompono Oreste e Pilade reduci incatenati, goffi nei movimenti, segnati nel corpo dalle loro imprese, complici fino all’uscita di scena finale, in cui dopo la commovente agnizione tra fratello e sorella abbandonano Ifigenia alla sua solitudine.
Tanti i passaggi memorabili: l’esitazione dell’Agamennone di Russel Brown, accasciato sul letto indeciso se ubbidire o meno agli ordini indicibili ricevuti dagli dei, la struggente Clitennestra di Véronique Gens, che si passa il rossetto sulle labbra fingendo di ignorare la dissoluzione della sua famiglia intorno a lei, la violenza e la tenerezza espresse dai soldati di ventura di Florian Sempey e Stanislas de Barbeyrac, e soprattutto Corinne Winters rannicchiata in proscenio mentre un suo doppio viene sacrificato tra i festeggiamenti, o ancora che fuma malinconicamente una sigaretta con lo sguardo perso nel vuoto durante “O malheureuse Iphigénie”.
Emmanuelle Haïm dirige l’ensemble Le Concert d’Astrée con pulizia e chiarezza, cercando un suono più nervoso nella prima parte e trovando finalmente più corpo e forza nelle esplosioni della seconda.
Quanto a Samson, fu proprio questa la prima collaborazione tra Rameau e Voltaire: un oratorio perduto circa duecentocinquant’anni fa che il direttore Raphaël Pichon e il regista Claus Guth non hanno davvero ricostruito, ma ricreato assemblando con grande inventiva pezzi di altri lavori di Reameau nella tradizione del pastiche. Il risultato è un mosaico di grande coerenza musicale, magnificamente messo in scena da Guth all’interno di un grande palazzo bombardato (la scena di Étienne Plussuna è una delle più belle viste negli ultimi anni). Questa nuova creazione racconta fin dalle origini la storia dell’eroe biblico, la sua infanzia e giovinezza, il matrimonio con la filistea Timna, ovviamente l’amore con Dalila, fino al tradimento e al suicidio finale con conseguente massacro dei Filistei.
Funziona la caratterizzazione del protagonista, che deve fede i conti non solo con la sua forza proverbiale, ma anche con accessi d’ira che fatica a controllare. Tutta la vicenda è rivissuta attraverso gli occhi della madre di Sansone, interpretata da Andréa Ferréol, cui si vorrebbe affidare il compito di rendere più attuale e carico di significati il lavoro. A conti fatti però questo raffinato Samson fatica a staccarsi da un racconto ben condotto, ma poco più che letterale. Resta il ricordo di una serata musicalmente eccellente al Théâtre de l’Archevêché, per la raffinatezza della direzione di Pichon, l’energia dell’ensemble Pygmalion e le magnifiche prove dell’(anti)eroico Sansone di Jarrett Ott, della seducente e tragica Dalila di Jacquelyn Stucker e della tenera, lirica Timna di Lea Desandre.
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