Musica

Tutti i colori del brutto

12 Maggio 2022


You can never please anybody in this world (Shaggs, “Philosophy of the world)

 

Cosa sarà mai la bellezza? Una domanda che sembra non avere una risposta definitiva, se vogliamo uscire dai parametri delle definizioni classiche. Personalmente trovo che la bellezza sia un’occasione offerta e  colta al volo, un “oggetto” su cui si compie un’operazione di linguaggio. E tanti sono i numi tutelari a riprova di ciò che penso. Da sempre che l’arte rifletta e attinga anche dalla bruttezza e non sono certo io il più adatto a poter aggiungere una parola in più a quanto altri migliori di me han scritto o detto. Mi limito a concentrarmi solo su quello che credo di aver capito facendo una comparazione tra due opere discografiche che in un modo o nell’altro, attraverso un percorso o un altro, possono dare un’idea dell’occasione (presa o mancata) che gli oggetti possono fornirci. Da un lato metto quello che viene considerato il disco più brutto di sempre, “Philosophy of the world”, delle famigerate Shaggs. Uscito nel 1969. E sempre del 1969 un’altra apoteosi della bruttezza: “Trout mask replica”, di Captain Beefheart and his Magik Band. Entrambi gli album hanno avuto un occhio di riguardo da parte di Frank Zappa. Un po’ di storia; la storia delle Shaggs è una storia tipicamente americana, un sogno di successo senza che alle spalle ci fosse alcunchè di solido. La band è formata dalle tre sorelle Wiggin. Il progetto viene dal loro padre, che a seguito della profezia di una chiromante (sposerai una donna bionda, avrai tre figlie, la moglie morirà, avrai successo), decide di fare delle figlie delle musiciste per un album che si auspicava come un clamoroso successo, date le profezie. Il padre costrinse le ragazze a imparare in fretta e furia a suonare e autoprodusse l’album, “Philosophy of the world”. Il tipo che doveva stampare le mille copie scappò con i soldi e, chissà perché, con 900 copie dell’album. Al padre ne rimasero solo un centinaio e una bella fregatura.

Captain Beefheart, nato Don Vliet. Il “Van” lo aggiunse lui, in omaggio a Van Gogh, di cui era ammiratore. E in effetti il destino di Vliet sembra segnato dall’arte. Sin da giovanissimo cominciò a realizzare delle sculture e delle marionette, al punto che venne chiamato a partecipare non ancora decenne a un programma tv dell’artista portoghese Agustin Rodrigues. Personalità eccentrica fino al midollo, amico d’infanzia e giovinezza di un altro originale come Frank Zappa (consiglio le memorie relative alla loro amicizia di quest’ultimo presenti nella sua biografia). Gli ascolti di Vliet sono all’insegna del jazz più radicale, Coltrane, Monk, Ornette Coleman (musicista col quale io amo fare dei collegamenti con la scrittura di Beefheart), come il blues più intenso (e Howlin’ Wolf è ben presente nel suo canto). Un musicista consapevole, che se non aveva le conoscenze formali per scrivere musica, aveva trovato un suo metodo per direzionare i suoi  sottoposti nel raggiungimento dell’obbiettivo finale. E “sottoposti” è il termine perfetto per definire i suoi strumentisti. Alla domanda di come dirigesse la sua Magik Band, Beefheart rispondeva “Con la frusta”. Il terzo album della sua formazione è il leggendario “Trout Mask Replica”, insuperabile doppio album che fa piazza pulita di tutte le convenzioni del rock, andando persino oltre a “Freaks out” di Zappa

Teniamo sempre presente che per entrambe le band di cui sto parlando il trait d’union è proprio Zappa, che produsse l’album di Beefheart per la sua etichetta ed ebbe sempre un occhio di riguardo per “Philosophy of the world”. Detto ciò viene da chiedersi se i due lavori hanno lo stesso peso, la stessa sostanza. Personalmente dico di no. È ovvio che la consapevolezza, il progetto, il lavoro di Beefheart si staglia di non poche distanze da quel disastro totale che è il disco delle povere, adorabili Shaggs. Ma se mettiamo da parte, almeno per un attimo questa prospettiva e consideriamo la musica come occasione, entrando nelle pieghe del puro linguaggio, anche un disco così fallimentare come “Philosophy of the world” è una miniera di occasioni. Ma non solo; dischi orrendi, realizzati da completi inetti ne uscivano, ne escono, ne usciranno sempre. Ma nell’album delle Shaggs succede un piccolo miracolo che rende il tutto un unicum in cui candore, inettitudine ma anche contrasti tra gli strumenti (le due terrificanti chitarre marca Avalon mai accordate, nemmeno per “errore”) creano un universo perfetto a sé stante, in cui la banale poesia dei testi (liriche degne di un diario di preadolescenti dedicate al gattino di casa, ai familiari, a una visione del mondo che non si sa se patetica o adorabile) si sposa con la dabbenaggine musicale. Come per miracolo, alla fine il palazzo destinato a crollare non crolla e una mente vivace e attenta si accorge che, per caso, ne è uscito un album diverso persino dalla pletora di brutture di cui il mondo è pieno. “Trout mask replica” più che un album sembra un dipinto su una tela gigante, in cui l’artista getta con violenza macchie e strisce di colore in nome di un feroce e infernale astrattismo. I testi sono delle poesie a dir poco surreali. Gli strumenti lavorano per contrasto, le due chitarre sono consapevolmente lasciate in disaccordo, ricorda in buona sostanza l’idea ormolodica colemaniana. Un clarinetto basso, messo in bocca a un ignaro Mascara Snake serpeggia senza altro senso se non il colore dentro l’unica canzone politica del disco, “Dachau blues” La batteria tappezza con costanti fratture ritmiche, il basso ondeggia senza pace, supportando l’assenza di una definizione ritmica l’intero discorso in cui Beefheart riassume in maniera perfetta la sua visione dell’universo, mescolando brutalità a viaggio allucinato. Un corpus poetico capitale per la musica del Novecento. Un oggetto che sfugge a ogni classificazione e da cui han beneficiato altri grandi artisti, Tom Waits in primis.

Che dire, per tirare le somme di questa piccola riflessione su due album contemporanei a loro stessi? Che sono egualmente validi? In questo caso la risposta è no. In Beefheart c’è un pensiero lucido, di una lucidità folle, derivato da una sua personale weltanschauung. Per le Shaggs si tratta del più catastrofico tentativo di entrare nell’universo delle teen band del loro tempo. Il primo resta un disco capitale, un unicum, certamente figlio del suo tempo ma le cui idee sono ricadute anche nel nostro. L’altro vale solo se applichiamo un filtro cosciente e ne ricaviamo una visione che certamente non appartiene alle menti delle giovani fanciulle guidate da un padre aguzzino (e in questo c’è del beefheartiano). Eppure, e per questo Zappa ha avuto la vista lunga, in un modo o nell’altro in entrambi i casi la possibilità di entrare in territori “altri” è, per diverse vie, garantita.

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