Musica
Tu che di gel sei cinta. Anche se ogni sera si squaglia
Ricordate quando, lo scorso agosto, mi complimentai col nuovo sovrintendente del Teatro Regio di Torino, Sebastian Schwarz, per le sue idee innovative – un’opera sul calcio – che nelle intenzioni rivoluzionerebbero l’opera e svecchierebbero il pubblico polveroso di madamin?
Orbene è in arrivo una grande idea multimediale che mi è appena giunta dopo aver indossato il cappello pensatore di Archimede Pitagorico, quello coi tre corvi nel nido di paglia in cima al comignolo che urlano Eureka! appena l’idea prende corpo.
Il bel ragazzone teutonico pieno di entusiasmo dovrebbe immediatamente aderire a farmi fare un allestimento con regia della Turandot dopo aver letto il mio progetto, che rendo pubblico qui, su Gli Stati Generali in maniera che nessuno in seguito possa avanzare pretese sull’idea. Gli Stati Generali meglio della SIAE testimonieranno la priorità.
Incominciamo.
La principessa di ghiaccio, da tutti temuta, perfino dal papà, plenipotenziario imperatore della Cina ma assai debole colla figliola – che è una psicopatica, diciamolo pure – potrebbe avere le sembianze di Greta Thunberg, l’eroina di ghiaccio del Nord Europa che da un annetto a questa parte imperversa ormai globalmente. La globalizzazione di Greta è una delle calamità che maggiormente incombono su di noi, relegando il cambio climatico a un disturbo momentaneo che si può sanare con un farmaco da bancone. Il personaggio le si confarebbe punto. Capricciosa lo è. Assoluta lo è. Enigmatica lo è. Anche l’età potrebbe corrispondere, Turandot era in età da marito e all’epoca delle favole l’età da marito corrispondeva alla postpubertà. In Oriente, poi, la tradizione delle spose bambine è vecchia storia.
L’imperatrice ereditaria di un regno di ghiaccio che vorrebbe mantenere tale impedendo che si sciogliesse a causa del riscaldamento globale la vede dura. Per questo odia gli adulti e taglia la testa a tutti i pretendenti che non risolvono i suoi enigmi, unico stratagemma magico, dovuto all’incantesimo di un fato malefico, per mantenere il ghiaccio al suo posto.
Ma arriva l’imprevisto. Come per la maggior parte delle donzelle nelle favole giunge il principe ignoto che scioglie gli enigmi e, insieme agli enigmi, Gretandot vede immediatamente a rischio di liquefazione i suoi ghiacci eterni. Infatti, appena il principe ignoto pronuncia la soluzione del terzo enigma la scenografia, rigorosamente in ghiaccio, inizia rumorosamente a perdere pezzi, come i vicini ghiacciai del Monte Rosa e del Monte Bianco. Panico in sala. Fornire i professori d’orchestra (forse anche il pubblico) di giubbotti salvagente stile Titanic, iceberg in avvicinamento.
I personaggi secondari. Le tre maschere, per esempio. C’è l’imbarazzo della scelta, perché di pagliacci siamo abbastanza forniti. Diciamo che i più papabili sarebbero coloro che appoggiano la Turandgreta e quindi tra capi di stato, funzionari dell’ONU e politici vari c’è ampia selezione, maschere grottesche che assecondano le voglie della gelida principessa cavalcando la tigre.
Liù. Povera schiava che fa harakiri per il suo principe padrone. A chi affidare questo ruolo patetico se non a un soprano travestito da Salvini, il cui harakiri clamoroso d’agosto è ancora fresco fresco?
Il principe ignoto resta ignoto, è il suo bello. Potrebbe essere chiunque travestito da chiunque, potrebbe anche essere frutto della fantasia galoppante di Gretandot, non esistere.
Se si volesse assecondare questa lettura fiabesca del progetto si potrebbe usare solamente un cantante in scena, ossia il soprano che canta il ruolo principale. Turandgreta è sola, la sua ossessione virginea le aliena tutto e tutti, lei non ha bisogno di nessuno. Tutto il resto della truppa potrebbe pertanto essere reso da ologrammi, anche perché è una favola – e in una favola tutto è possibile – e gli effetti speciali cinematografici ormai sono di casa nel teatro lirico. Pensandoci bene, in fondo i cortei globali di giovani inneggianti a Gretandot cosa sono se non ologrammi? La loro massa di fronte al potere assoluto degli imperi e ai traffici che gli imperi fanno tra loro nella penombra pesa quanto un ologramma e come tali sono trattati dal potere che addirittura li elogia per le loro manifestazioni. E quando mai è successa nella Storia una cosa simile? Ad ogni modo, con quest’espediente, il coro e gli altri cantanti potrebbero ecologicamente cantare in videoconferenza, senza neanche disturbarsi a venire da casa e parcheggiare intorno al teatro, cosa sempre più difficile, mentre degli ologrammi, controllati da una consolle, agirebbero in palcoscenico liberamente e nessuno si farebbe male. Sai quanti soldi di assicurazione per gli infortuni e quanta energia per gli spostamenti risparmiati?
Naturalmente mentre Turandgreta canta il suo duetto finale col principe virtuale e lo bacia in un bacio che non può esserci, tutta la rabbia egotica che ha in corpo le salta fuori: entra in una torta nuziale felliniana da cui emerge con un mitra e spara a tutti, pubblico compreso, urlando “Il mio nome è Amore!”, mentre tutto il ghiaccio della scenografia si è squagliato, inondando il teatro quasi una naumachia, coi corpi dei malcapitati – quelli che magari non hanno pagato il biglietto – che galleggiano, ci potrebbe stare anche un gommone di profughi proveniente forse dall’allestimento di un’altra opera in cartellone nei magazzini inondati, ad esempio il Nabucco in chiave etnico-migratoria. Ottimo finale per un’egocentrica come lei. Ride e canta nel sole l’infinita nostra felicità. Trionfo.
Non solo. Pensate! Si darebbe lavoro a una schiera di scultori del ghiaccio magari recuperati nei vari festival alpini, dalla Val Gardena alla Svizzera alla Francia, che potrebbero abbellire la scena di cineserie in ghiaccio, effimere, certo, ma da rifare ogni giorno e colla cosa più economica e naturale del mondo, almeno ai piedi delle Alpi: l’acqua. Senza coloranti artificiali, magari con luci alimentate da centrali eoliche, idroelettriche e solari, o da 128 schiavi prigionieri pedalanti in caso di siccità. Più GREEN di così. Senza bisogno di stipare le scenografie in costosi magazzini e facilmente esportabile per festival italiani e stranieri, solo il pullman elettrico degli orchestrali e forse una limousine elettrica climatizzata (o una barca monegasca da regata, in caso di trasferte in città marinare) per il soprano. Tutto ecologico. Quindi anche una metafora della fragilità dell’arte unita alla fragilità del mondo unita alla fragilità della personalità di Gretandot unita alla fragilità dei nostri coglioni che non ne possono più.
Vi piace? Un pubblico tedesco o francese, in visibilio già solamente all’idea, avrebbe da tempo esaurito i biglietti per le trecentocinquanta recite previste, un anno di Turandot a Torino. Peccato che le olimpiadi invernali siano già passate da quelle parti perché sarebbe stata una bella occasione.
Si accettano votazioni che sottoporremo al sovrintendente Schwarz in modo che stia a sentire le esigenze del pubblico d’oggidì e le idee rivoluzionarie che avrebbe premiato, per non parlare dell’esercito di adolescenti ammiratori della Superstar di Stoccolma che assicurerebbe il tutto esaurito. D’altro canto si spendono soldi pubblici, no? A questo punto ambirei al Premio Abbiati, se danno il Nobel alla pulzella di Stoccolma…
© Settembre 2019 Massimo Crispi
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