Musica
Tim Berne, gigante del jazz
Si discute spesso attorno al fatto – o forse sarebbe meglio definirla una “percezione” – che il jazz degli ultimi 40 anni non abbia espresso figure di riferimento paragonabili a quelle dei “giganti” dei decenni precedenti.
È in fondo una questione di lana caprina, per carità, che si può agilmente inquadrare da un lato nel mutamento complessivo delle condizioni di produzione e fruizione del jazz medesimo, dall’altro nella tendenza – strettamente funzionale a una logica identitario/economica di storicizzazione – a “mitizzare” alcune figure e alcuni momenti della sua vicenda a volte al di là della reale connessione con il contesto socio-culturale in cui si sono svolte.
Nessuno chiaramente osa, a meno di non voler risultare palesemente ridicolo o preconcetto, affermare che gli ultimi decenni non siano stati popolati di musicisti di assoluto valore nell’ambito (via via sempre più allargato) delle musiche di derivazione afroamericana, ma per pigra convenzione si rischia talvolta di avere seppellito prematuramente un po’ troppe cose insieme a John Coltrane.
Mi capita così ogni tanto di riflettere su quali musicisti abbiano costruito, in questo scorcio di tempo a cavallo del millennio, un percorso artistico e espressivo che per originalità e qualità li renda in qualche modo emblematici delle potenzialità (e in un certo senso delle contraddizioni) dell’apparentemente complesso periodo storico che stiamo attraversando.
Ieri sera, al termine di un concerto davvero fenomenale, ho avuto la riprova che Tim Berne è uno di questi musicisti.
Sassofonista e compositore, Berne occupa un ruolo di assoluto rilievo nella storia del jazz sin dalla fine degli anni Settanta. Allievo di quel genio tuttora sottovalutato che è stato Julius Hemphill, animato da un’intensa energia progettuale che ha declinato sia attraverso canali più strutturati (due capolavori del biennio 1986/88, Fulton Street Maul e Sanctified Dreams, furono pubblicati da una major come Columbia/CBS) che per mezzo di una intelligente autoproduzione con etichette come la Empire o la Screwgun, Berne ha dato sempre l’impressione di essere un musicista che si mostra già maturo e al tempo stesso in grado di ampliare questa stessa maturità.
(Per conoscere meglio Berne e la sua etichetta)
In questo senso i gruppi guidati negli anni, dai Bloodcount ai Caos Totale, passando per i Miniature, hanno fornito a Berne delle straordinarie piattaforme per sviluppare un rapporto sempre cangiante tra la scrittura e l’improvvisazione e i recenti esiti del lavoro con gli Snakeoil lo confermano con emozionante evidenza.
Il concerto di Mestre (nell’ambito della rassegna Candiani Groove, con l’esperta curatela del Circolo Caligola) ha raccontato tutto questo a una platea che è sembrata a tratti quasi sopraffatta dall’intensità delle trame sonore imbastite dal quartetto Snakoil.
Con Berne ci sono, ormai da qualche anno, Oscar Noriega ai clarinetti, Matt Mitchell al pianoforte e Ches Smith alla batteria e percussioni, tutti strumentisti che sono pienamente “dentro” alla concezione formale del leader e che contribuiscono attivamente a rendere questa vivacissima e sempre imprevedibile.
I lunghi brani presentati attraversano atmosfere differenti, a volte sospese e obliquamente liriche, altre volte di brutale angolosità, sfruttando tutte le possibili combinazioni tra gli strumenti (che si incontrano in rarefatti duetti per poi riunirsi in modo quasi inaspettato in cavalcate su ritmi spezzati dal sapore epico) e dispiegando al massimo le potenzialità di un disegno compositivo che è felicemente lontano sia dalle logore logiche tema-soli-tema che dalla sempre più spesso prevedibile informalità di molta, anche eccellente, improvvisazione libera.
Nel concerto sono stati proposti sia temi tratti dai due ultimi dischi incisi per la ECM (il passaggio all’etichetta tedesca ha indubbiamente portato a una maggiore visibilità per Berne), cose come “Cornered (Duck)” o “Spare Parts”, ma anche alcuni temi nuovi come “Embraceable Me”, che usciranno nel prossimo lavoro, You’ve Been Watching Me.
Una musica di tale potenza è musica che definire jazz o meno sembra francamente superfluo, se non fosse che è prevalentemente ancora l’ambito “jazz” quello che permette a Berne di condividere il proprio percorso con una comunità di ascoltatori.
Per me Berne e gli Snakeoil potrebbero/dovrebbero benissimo stare all’interno dei cartelloni dei festival di musica contemporanea, esempio eccellente di una musica che cattura le inquietudini del proprio tempo (non è un caso che il sassofonista si sia formato all’interno della scena newyorkese downtown), che costruisce la propria concezione aprendosi ad altri linguaggi – in questa chiave il ruolo del percussionista Ches Smith, che ha un variegato background indie-rock, è emblematico – e che ridona al processo improvvisativo una centralità dialettica nei confronti del disegno formale complessivo.
Peccato che gli ambiti più consolidati della musica contemporanea si ostinino a ignorare la musica di Berne così come quella di molti altri eccellenti musicisti che provengano da un percorso esterno a quello accademico di matrice post-darmstadtiana.
Una felice eccezione, un tentativo di dialogo, un’intuizione da sottolineare è pertanto quella di Gianni Gualberto, direttore artistico di Aperitivo in Concerto al Teatro Manzoni di Milano, che ha invitato Berne e gli Snakeoil a confrontarsi con l’ensemble Sentieri Selvaggi di Carlo Boccadoro (non a caso uno dei gruppi più programmaticamente “aperti” del panorama contemporaneo italiano).
Accadrà domenica 8 marzo, alle 11, per un appuntamento che si preannuncia non solo interessante, ma anche significativo di quello che potrebbe essere, se non il migliore, ma uno dei più auspicabili mondi possibili. Un mondo in cui i suoni e le pratiche musicali della contemporaneità sono significativi – al di là delle classificazioni stilistiche – per la forza e l’urgenza del loro segno sonoro.
Se vi capita, non perdetelo questo concerto. Perché il gruppo di Berne è travolgente, perché l’idea di farlo collidere con una partitura di Boccadoro è, comunque vada, stimolante, perché ci sono coinvolti strumentisti e pensatori di musica che vale la pena di conoscere.
Probabilmente chi tra un secolo guarderà storicamente al jazz di questi anni lo farà con categorie e strumenti ben diversi da quelli con cui ci siamo abituati a leggere le vicende della musica afroamericana del Novecento.
Ma se dovessi, così, per gioco, suggerire qualche nome che merita di comparire tra i grandi di questa musica che rimarranno, quello di Tim Berne lo metto a scatola chiusa!
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