Musica
The Fleshtones festeggiano i quaranta con il nuovo The Band Drinks For Free
Questa band è un miracolo! Dopo quarant’anni di carriera e ventuno album, lo spirito è sempre lo stesso e i ragazzi sono ancora in temperatura come quando, nel lontano 1981, pubblicarono “Roman Gods”, un esordio mitico, in cui la band servì la propria musica sui piatti di tutto il mondo, anticipando un processo di recupero degli anni sessanta che di lì a poco avrebbe coinvolto gran parte del rock indipendente. Un illustre critico musicale li ha definiti come “probabilmente il più grande gruppo di revival di tutti i tempi”; una definizione che non fa una piega, perché la band capitanata da Peter Zaremba è stata in grado di mantenere la barra dritta, esaltando alcuni aspetti caratteristici del rock dei sixties (l’energia, la semplicità, la melodia e la leggerezza) aggiornandoli e trasformandoli attraverso un linguaggio proprio che è diventato un marchio di fabbrica e che ha permesso loro di guadagnarsi il rispetto incondizionato di pubblico e critica.
È così che anche questo disco conferma le qualità indiscutibili del quartetto di New York che con “…The Band Drinks For Free” tiene l’ennesima lectio magistralis sul rock ‘n’roll. Si parte con una cover di lusso, nientepopodimeno che “Love Like A Man”, cavallo di battaglia dei mai dimenticati Ten Years After di Alvin Lee, un duro blues rock che i Fleshtones trasformano con rispetto e classe sopraffina in un’elettrizzante party song, sexy e stroboscopica, abbellita dai cori della voce potente di Lisa Kekaula dei Bellrays. Neanche il tempo di prendere fiato e siamo di nuovo in pista con “Love My Lover”, dalle forti tinte rock-soul anni settanta (e una certa affinità col ritornello di “Hangin’ ‘round” di Lou Reed) e “Rick Wakeman’s Cape” un power pop spinto da un organo Farfisa che non fa prigionieri. Ma è con la successiva “Suburban Roulette” che il super-rock dei fantastici quattro esplode con una partenza in fuzz-guitar capace di strapparvi le mutande e lasciarvi stravolti come un bungee jumping giù dal Chrisler Building. Una bomba atomica cui seguono i tre minuti defaticanti di “Respect Our Love”, una ballata elettrica sui generis ma carica di pathos, cui seguono “Living Today” e Too Many Memories” che sollevano di nuovo l’asticella prima di arrivare a un’altra cover, “The Gasser” degli Hondells, una festa sulla spiaggia in pieno 1965, che i Fleshtones aggiornano appena, dando quel po’ di spinta in più per stare al passo coi tempi. A questo punto la band si mette comoda e snocciola “Stupid Ol’ Son”, un rock radiofonico che deve molto al Paisley Underground dei primi anni ottanta, (una scena per la quale i nostri fecero da apripista) e “The Sinner”, un classico blues in dodici battute a dire il vero piuttosto insipido e che rappresenta l’anello debole dell’album, che però si riprende alla grandissima con gli ultimi due pezzi: la ballata alla R.E.M. “How To Make A Day” e la formidabile “Before I Go”, un distillato di purissimo Fleshtones-sound, con tanto di Fuzz-guitar e Farfisa in bella mostra, che mette il fuoco sotto i piedi confermando l’ottima salute di una band che sta di diritto tra i grandi del rock.
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