Musica
Testa o pancia? Come ti convinco a finanziare il jazz…
Tra le esigenze più pressanti che chi organizza spettacolo da vivo c’è, oggi più che mai, quella di individuare le strategie più efficaci per trovare e convincere interlocutori (pubblici e privati) che possano sostenere economicamente l’iniziativa.
Problema ancor più sentito nel mondo del jazz, che – nonostante un netto miglioramento complessivo del supporto nel 2015 e a dispetto di una diffusione capillare in ogni angolo della penisola – si prende una percentuale di FUS che si aggira attorno alla risibile percentuale del 2%…
Se n’è parlato lo scorso fine settimana al festival Novara Jazz, che ha organizzato – nell’ambito del progetto Hangar Piemonte – una giornata di formazione sui temi dell’impatto economico e sociale del jazz e del fund raising.
Sono temi su cui c’è già ampia letteratura e che però, in Italia, necessitano di essere spesso ribaditi, dal momento che l’intero “sistema” è ancora pesantemente ancorato a modalità (e scorciatoie) il cui drammatico anacronismo racconta meglio di ogni aggettivo il ritardo culturale della nazione.
La prima parte del convegno è stata curata da Severino Salvemini, docente di grande esperienza in ambito di management della cultura (insegna alla Bocconi) e anche appassionato di jazz. Pur mantenendosi in un ambito generale – con un’ottima capacità di sintesi – l’intervento di Salvemini ha sottolineato l’importanza del monitoraggio dell’impatto di un’iniziativa culturale sul territorio, impatto non solo in termini di indotto (diretto e indiretto), ma soprattutto di patrimonio cognitivo e coinvolgimento della comunità.
(E già qui, a chi ha esperienza di riunioni con un certo, assai frequente, tipo di assessore o funzionario, non può non sfuggire un certo sospiro di sfiducia….)
Il lavoro di analisi dell’impatto, ha proseguito Salvemini, deve essere prima di tutto preventivo (quanti “certificano” fieramente a giochi fatti le meravigliose – e spesso difficilmente verificabili – ricadute economiche della loro iniziativa, appuntandosi al petto la medaglia di latta di moltiplicatori sopravvalutati?) e tenere conto delle variazioni, sia qualitative che quantitative degli aspetti economici, sociali e culturali.
Interessante anche ricordare quanto l’investimento culturale in un territorio accresca la cosiddetta “offerta simbolica” e la capacità di attrarre talenti da altri luoghi del mondo, elemento di potenza dirompente nel valore di una progettualità e talvolta percepita erroneamente in piccolo o grande conflitto con gli interessi (vedi alla voce miopia) di politici e artisti locali.
Nella discussione che è seguita all’intervento, Salvemini non è sembrato avere dubbi: se ti siedi davanti all’assessore o a un potenziale sostenitore con in mano la logica inoppugnabile di una valutazione di impatto seria e autorevole (quelle ben fatte costano e di media se le può permettere solo chi ha già una certa “posizione”, ma tant’è), le possibilità che il tuo festival trovi i denari sono buone.
Rovescia l’impostazione – non so quanto volutamente nell’idea originale degli organizzatori, ma l’accostamento è notevole – l’intervento sul fund raising curato da Valerio Melandri, docente del master dell’Università di Bologna e fondatore del Festival del Fundraising.
Melandri è oratore di qualità davvero rare: divertentissimo (a tratti esilarante) e efficace nello smontare alcuni errori comuni e nel fornire – a volte anche con eccessiva fiducia – chiavi di lettura spiazzanti per impostare il rapporto con sponsor e sostenitori.
Ha voluto con forza chiarire all’uditorio che si osa troppo poco e che la capacità di “creare un caso” interessante per ottenere attenzione e fiducia di sostenitori economici è un’arte che in molti casi va contro a quello che l’operatore culturale medio è abituato a dare per scontato.
In questo Melandri mette il dito in una piaga piuttosto evidente: la difficoltà del settore nel rivolgersi a potenziali sponsor e supporter attraverso un discorso emozionale, quando invece la prassi – assai poco proficua – è quella di dare per scontato che un progetto (invitare l’artista tale o fare un determinato tipo di musica) sia percepito come interessante o, addirittura, di dare l’impressione di voler “educare” – per quanto in buona fede – l’interlocutore.
L’azione di fund raising è qualcosa di più simile a quella di un evangelizzatore che non a quella del pignolo sciorinatore di dati, Melandri si accalora ed è tutto un fiorire di “emozionare”, “adottare”, “entusiasmare”, salvo ammettere alla fine che, comunque (e non potrebbe essere altrimenti), una buona azione di fund raising richiede soldi – pagare uno che lo sappia fare – o molto tempo, due elementi che spesso nel mondo del jazz non sono tra i più abbondanti.
Allora? Testa o pancia? Sembra una domanda alla “petto o coscia” del macellaio, in realtà l’impressione che si ha dopo la giornata di approfondimento (seguita giustamente con grande interesse da musicisti e operatori nazionali, convenuti a Novara) è che da un lato le indicazioni di Salvemini e Melandri siano non solo molto interessanti, ma anche vadano a toccare nervi scoperti del settore. Dall’altro non c’è dubbio che l’intero comparto sconti inadeguatezze strutturali cronicizzate (molti amministratori pubblici hanno della cultura una concezione di paralizzante conservatorismo e “eventismo”) e che in molte situazioni sia che si scelga la pancia o la testa, alcune difficoltà sono difficili da eliminare a breve scadenza.
C’è però un mondo del jazz in Italia – l’associazione del Festival IJazz, quella dei musicisti MIDJ, nuove realtà associative e musicisti che pian piano stanno sempre più interessandosi di queste tematiche – che si sta (pur con qualche fatica) muovendo per acquisire quel livello di consapevolezza e di strumenti che consenta di dialogare con le istituzioni e l’Europa con un po’ più di convinzione e autorevolezza.
E che all’alternativa testa o pancia potrebbe aggiungere anche qualcosa che sta a metà strada e che il jazz conosce bene.
Il cuore.
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