Musica
Teatro Olimpico di Vicenza, Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach
TEATRO OLIMPICO DI VICENZA. CONVERSAZIONI 2017. 70° Ciclo di Spettacoli Classici.
Hamletmaschine di Heiner Müller messo in scena da Robert Wilson. Medea, tra Euripide e Seneca, allestito da Walter Pagliaro. Il Malato immaginario di Molière riscritto da Marco Zoppello, come emblema dell’ultimo viaggio. Ad aprire uno spettacolo di Teatro Nô, Okina di Kazufusa Hôshô e Hagaromo di Tatsunori Kongô. A specchio la Biennale Musica di Venezia apre con Inori di Karlheinz Stockhausen, la mistica zen ripensata e rivissuta da un compositore tedesco. Il Teatro Olimpico di Vicenza sembra volerci far riflettere in quanti modi e in quali forme si possa declinare il teatro. Ma l’appuntamento di cui qui voglio scrivere è un altro tipo di teatro e un altro approccio al misticismo, singolarissimo, direi unico, anche nell’ambito cristiano: la Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach. Un “teatro della mente” si sarebbe detto da Orazio Vecchi e Adriano Banchieri, inventori, alla fine del Cinquecento, della commedia “harmonica”, o madrigalesca, a cui si rifà anche nel nome Il Teatro Armonico vicentino. Il teatro si celebra, cioè, nella mente dello spettatore. La musica si limita e prefigurargli, senza l’aiuto di attori, i personaggi e le vicende. Bach, ancora più audace, il teatro se lo figura tutto nella musica, l’azione si fa corpo e forma della costruzione musicale. Margherita Dalla Vecchia, a capo dell’Ensemble Il Teatro Armonico, si occupa sia dell’interpretazione musicale che dei movimenti scenici dei personaggi, in realtà limitati all’uscire dal Coro e presentarsi sul proscenio. Marcus Elsässer è il bravissimo, intenso Evangelista. Christian Palm impersona solennemente e con passione, alla lettera, il Cristo. I ruoli solistici dei due cori interpretano gli altri personaggi: Vittoria Giacobazzi, soprano, è la moglie di Pilato, il tenore Enrico Imbalzano un testimone, i bassi Guglielmo Buonasanti Pilato, Giovanni Florian Giuda, Yiannis Vassilakis Pietro, per il primo coro. Nel secondo coro, i soprani Caterina Chiarcos è la Serva I, Naoka Obbayashi la Serva II, il contralto Alberto Miguélez Ruoco un secondo testimone, i bassi Giovanni Bertoldi e Alberto Spadarotto il Sommo Sacerdote. Che i solisti del coro impersonino anche i personaggi dell’Oratorio riprende una pratica corrente del tempo di Bach. Non diversamente doveva apparire ai fedeli di San Tommaso a Lipsia l’esecuzione guidata da Bach. Ma il punto centrale di questa interpretazione non sta tanto nella teatralizzazione dell’oratorio, quanto nel fatto che il complesso chiamato a eseguirlo sia una formazione italiana, e italiana anche l’interprete che tiene l’insieme. Tra le voci del coro e gli strumenti dell’orchestra non mancano, tuttavia, nomi stranieri. La prova era ardua. Ma superata con dignità, anzi con rara pertinenza interpretativa, a cominciare dalla dizione del testo tedesco. La partitura è immensa, fa tremare le vene e i polsi a qualsiasi interprete. Ciò che colpisce e conquista subito l’ascoltatore è una specie di rappresentazione in diretta della passione di Cristo: Bach la racconta come una cronaca contemporanea, e interviene a commentarla sempre tenendo presente la reazione dell’uomo di oggi. Comincia con il cammino verso la collina del supplizio. I due cori s’incontrano, come in un’antica tragedia di Eschilo, per esempio Le Coefore. Oreste, Pilade sono sulla scena, e dai due lati dell’orchestra entra il coro, in testa a una parte di esso Elettra. Si pensa proprio a questo, ascoltando questo Bach sulla scena del Teatro Olimpico. Elettra e Oreste sono i figli di Agamennone, che la loro madre Clitennestra ha scannato nel bagno. Non si sono ancora riconosciuti. Si riconosceranno. E chiederanno – agli dei, al Destino – il senso di ciò che è loro accaduto, di ciò che sta accadendo. Lo spettatore antico ha ancora nelle orecchie le parole del coro, nella tragedia precedente, l’Agamennone: il coro invoca Zeus, ma Pasolini, nella sua straordinaria traduzione, giustamente sostituì Zeus con Dio. O Dio, Dio, all’uomo unica via di conoscenza desti l’attraversamento del dolore. Bach fa lo stesso. L’incarnazione è per Dio l’impatto con ciò che c’è di più umano: la sofferenza. L’uomo non sa riconoscerla, questa conoscenza che si tocca nel dolore. Ecco allora che il viaggio al Golgotha è un viaggio della conoscenza. Dell’infelicità e della miseria dell’uomo, ma anche della profonda verità di commiserazione nel fatto che Dio stesso, fattosi Uomo, attraversi questo inferno, conosca questo dolore, e si confronti, lui Eterno, con il Nulla della Morte. Nietzsche scrive che l’Inferno di Dio sono gli uomini. E’ un’idea che può germogliare solo in un tedesco, ultimo, disperato erede del pietismo, ma ormai privato di Dio. Un tale abisso era stato intravisto da Goethe, educato anche lui da pietisti, negli ultimi istanti di Faust. Ma torniamo a Bach: il Kantor di Lipsia ignora l’orrore della morte. Anzi l’invoca: Komm, du, süsser Tod, Vieni, tu, o dolce Morte (morte in tedesco è maschile, come in greco: Thanatos). E’ il primo verso di una bellissima cantata. Non è diversa la concezione della Passione. E di fatti il Coro, morto Gesù, lo culla dolcemente in una ninna nanna sublime. Gli dice: Buona notte! mio dolce Gesù. L’inizio e la fine chiudono il cerchio: il cammino sul Golgotha si conclude con la morte del Redentore. Ma, appunto, morendo, Gesù ci ha redenti, e il Coro, gli uomini, noi, lo ringrazia, gli dà la buona notte. C’è tuttavia un momento, anzi ci sono due momenti, in cui la contemporaneità della Passione si fa processo all’uomo di oggi. E sono due momenti sconvolgenti, più ancora che se fosse vero teatro, Wagner, Il Crepuscolo degli dei, la morte di Sigfrido, Verdi, La forza del Destino, pace, pace, o mio Dio! Il primo momento è la folla che chiede la morte di Gesù in cambio della vita di un assassino, Barabba. Non so che cosa pensasse il pubblico dell’Olimpico. A me sono venute in mente scene raccapriccianti di oggi, le stragi dell’ISIS, le decapitazioni nella piazza di Accra, il popolo fanatizzato che esulta per ogni “infedele” innocente ucciso. Pilato chiede: volete che uccida un innocente? Il popolo grida: che sia crocifisso! Viene in mente una scena ugualmente terribile del Giulio Cesare di Shakespeare: quando la folla osanna Bruto per avere ucciso un tiranno e poco dopo, ascoltato il discorso di Antonio, impreca esagitato contro i congiurati. Viene in mente Piazzale Loreto, o Piazza Venezia quando Mussolini dichiarò guerra all’Inghilterra. Il popolo esultò, urlò, gridò estasiato: Duce, Duce, Duce! O più vicini a noi, quando l’onda delle folle insegue ora questo ora quell’altro demagogo. E ne abbiamo tanti, oggi, in Italia! Ecco: la contemporaneità della Passione secondo San Matteo sta anche in questo: che la condanna di un innocente ci ricorda la condanna che ogni giorno le folle di ogni parte del mondo chiedono al potere che le asservisce, e quelle folle credono di attuare così la giustizia finale degli eletti. Ma c’è poi un altro momento, se possibile ancora più tremendo, e che ancora più violentemente ci coinvolge tutti. E’ il rinnegamento di Pietro. In quel momento Bach fa qualcosa d’impensabile: Pietro in quel momento siamo tutti noi. E tutti noi stiamo tradendo il Cristo, la Verità. Non per niente segue subito una delle arie più belle, più amare e insieme più dolci mai scritte dalla mano di un compositore. La redenzione sta tutta qui. Che noi tutti ci riconosciamo colpevoli della morte di un innocente. Aristotele l’avrebbe chiamata catarsi. La Passione secondo San Matteo è la tragedia dell’uomo moderno, come l’Edipo Re – con cui s’inaugurò il Teatro Olimpico – è la tragedia dell’uomo antico. Ma sia l’antico che il moderno vengono denudati davanti all’inevitabilità del dolore. Conoscere è soffrire, dice Eschilo. La mia sofferenza si fa troppo grave, tu stesso mi aiuti a sopportarla, dice Bach, alla fine del viaggio del Coro. Serata di profonda commozione, proprio per l’intensità e insieme la semplicità con cui, sotto la guida di Margherita Dalla Vecchia, il Teatro Armonico ci ha fatto rivivere la Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach. Scrivo queste riflessioni a qualche settimana di distanza. Ma la distanza, invece di diminuirlo, accresce, nel ricordo, il pathos di quell’ascolto indimenticabile. E Nietzsche mi perdoni la deformazione del suo pensiero.
Fiano Romano, 17 ottobre 2017
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