Musica
Soundtrack – I dischi della settimana, 5 marzo
Con un piccolo ritardo eccoci con la musica nuova di questa settimana, una manciata di album che sono appena usciti e ci sono piaciuti particolarmente. In questi ultimi mesi ci siamo accorti di una cosa, i dischi escono sempre con maggior fatica, gli artisti (o meglio, le case discografiche) preferiscono di gran lunga l’uscita di singoli con cui saturare le classifiche dello streaming. D’altronde questo è quello che richiede il mercato, nonostante il vinile sia tornato di moda, oggi ascoltiamo più facilmente una canzone dal nostro Smartphone scendendo a patti con una qualità di suono spesso discutibile ma molto, molto pratica.
Bene, cuffie pronte, ascoltiamo!
Avi Kaplan – I’ll, Get By
Se c’è una voce che merita di essere ascoltata è quella di Avi Kaplan. Conosciuto per aver fatto parte del gruppo vocale Pentatonix, da 4 anni Avi ha intrapreso la carriera solista, affidandosi alla musica folk come comodo rifugio cui affidarsi, dopo tre anni dall’esordio con Sage and Stone, Kaplan è tornato a pubblicare musica con un bellissimo disco intitolato I’l Get By in cui dà sfoggio di tutta la sua abilità vocale.
Ogni brano si basa su un sottofondo musicale tipicamente folk e acustico, in cui le parole vanno a costituire una originale architettura che permette di dare forma ad un processo creativo veramente interessante. L’epicità è spesso una prerogativa delle tracce, ma c’è anche una linea più “giocosa” sebbene con i toni solenni come ad esempio in It Knows Me, in cui l’arpeggio dei banjo sostiene una linea vocale profonda e imperturbabile. Inutile accostare l’intero disco all’ultima produzione di Johnny Cash, la profondità della voce di Kaplan rende magica ogni canzone e ne sottolinea la composizione. Un pezzo come Chains, nel suo incedere quasi marziale, diventa come una sorta di monumento sonoro costruito su solide basi di percussioni molto grevi. Più movimenta ma altrettanto solenne è la giocosa Born In California in cui troviamo anche vocalizzi più ispirati dai primi dischi di Ben Harper. Full Moon è invece una improvvisa conclusione, sognante e quasi lisergica di un disco che è durato troppo poco. Ovviamente aspettiamo che il buon Avi ci delizi con qualcosa di più sostanzioso, ma questa prova è davvero simbolo del fatto che il cantante americano ci sta lavorando su e non abbia paura di usare la sua voce come lo strumento cardine di tutte le composizioni. A fianco di ottimi arrangiamenti non possiamo infatti fare altro che restare affascinati dal timbro che trasuda epicità. Aspettiamo, Avi Kaplan avrà ancora molto da dire.
Soccer Mommy – Color theory
Sophie Allison (Soccer Mommy) è stata una delle rivelazioni di due anni fa con il suo disco di esordio Clean. La sua scrittura, basata su tragedie di tutti i giorni, dissapori, fallimenti e insomma “vita vissuta”, è risultata essere convincente, soprattutto dando voce ad una sorta di crisi generazionale tipica dei vent’anni. Nulla da eccepire, Allison ha saputo cogliere la palla al balzo dimostrando una grande sensibilità, mettendo se stessa sia nelle tracce più intime che in quelle più articolate. Yellow is the color of her eyes è stato il singolo di lancio di questo nuovo lavoro ed è stata una scelta ragionata e vincente. Nella sua semplicità da ballad abbastanza marginale, il brano risente tantissimo della vena da cantautrice targata Soccer Mommy ed è un tenero esperimento che riesce a scalfire anche i cuori più granitici. Nelle canzoni si respira un’essenzialità di fondo come nella semplice e lineare Circle the drain, o nella acustica Royal screw up, che tuttavia dimostrano come la voce riesca a guidare ottimamente l’ascolto, suggerendo l’idea di una ispirazione che ha finito per coinvolgere l’intero processo creativo di Color Theory. Un po’ manieristico l’approccio con night swimming, compensa una ritrovata energia in Crawling in my skin. Da metà disco in poi tutto è in discesa, viene meno la creatività ma non il fascino della voce che nella conclusiva Gray light diventa quasi un canto affabulatorio e sognante.
Un disco da ascoltare per riacquistare la calma, soffermandosi su momenti molto intimi e ben riusciti, immaginando una diversa riuscita per altri, ascoltando tuttavia un disco fatto col cuore e con molta passione cantautoriale.
Grimes – Miss anthropocene
Finalmente è arrivato uno degli album più attesi di quest’anno. Claire Boucher è arrivata al suo quinto disco con la promessa di regalarci qualcosa di importante, o quantomeno provare a darci prova del picco della sua giovane carriera, dopo 10 anni dall’esordio. Partiamo però dall’inizio, dicendo che Grimes è la principessa moderna della cosiddetta “ethereal wave”, un genere molto evanescente in cui riverbero e Delay sono gli effetti più usati e la voce viene adoperata come uno strumento sussurrato che sostiene testi molto incisivi e importanti. Anche per Grimes tutto questo funziona, con l’aggiunta di una buona dose di elettronica e di sensibilità glaciale, come l’originalissima Björk, ma anche ritmi che strizzano l’occhio all’RnB con bassi molto presenti e articolati. Nel 2011 Grimes disse che avrebbe dedicato il suo tempo a studiare da popstar. C’è riuscita? Quello che possiamo dire è che la sua produzione, da quel momento è sempre stata votata alla sperimentazione, con trame vocali sintetiche, ultraterrene, eteree, appunto. La verità che Grimes ha studiato davvero per diventare quello che è adesso ma non ha mai messo da parte i suoi termini creativi. In Miss Anthropocene Boucher ci parla di crisi climatica. Analizzare ogni singolo brano sarebbe superfluo, abbiamo a che fare con un disco da assaporare traccia dopo traccia cercando la linea di continuità che a volte sembra sfuggirci. Dalla giovanile Delete Forever all’elettronica e rarefatta Violence, dalla sensuale New Gods sino alla sostenuta My name is dark, sono tante le facce che Grimes cambia, minuto dopo minuto. Non manca l’approccio più pop a molte canzoni, bensì come forse nel caso dell’ultimo disco di Poppy sia davvero mettere una targa e definire l’artista, che non lesina sovraincisioni, percussioni molto profonde che fanno davvero vibrare il pavimento. Insomma se parliamo di contemporaneità Grimes può dircene davvero tante, ma fa anche qualcosina in più, pone le basi su cui la musica in futuro sarà importante per analizzare la società, più di quanto non lo abbia fatto finora.
Hayley Williams – Petals for armor I
La voce di Hayley Williams è una delle più caratterizzanti degli ultimi 10 anni. Partita con l’adolescenziale piglio che ha portato i Paramore sulle scene internazionali, Williams non ha mai smesso di studiare per fare evolvere la sua innata dote vocale. Non aveva mai provato a presentarsi con un progetto solista ed eccola per la prima volta incamminarsi da sola verso il proprio esordio, Petals For Armor. “Ho avuto il modo di sporcarmi un po’ di più del solito le mani quando si trattava della parte strumentale – ha dichiarato l’artista americana -. Sono in una band con i miei musicisti preferiti, quindi non ho mai davvero la necessità di entrare in un ruolo da musicista quando si tratta di dischi dei Paramore. Questo progetto, tuttavia, ha beneficiato di un po’ di ingenuità musicale e “rawness” e quindi ho sperimentato un po’ di più”.
Simmer è il primo singolo estratto da questo mini-album, dà prova dell’ottimo stato della voce di Hayley e soprattutto della creatività che anima il suo nuovo progetto. Una linea di basso minimale ma efficace, vocalizzi misurati ma originali, un pizzico di elettronica. Più sperimentale è invece Cinnamon, una bella contaminazione la cui guida è ovviamente offerta dalla voce, come in Creepin, molto più pop e moderna i cui termini di paragone si possono ritrovare negli ultimi fortunati passi di una ottima Billie Eilish. Il disco si chiude con Sudden Desire, un brano dal ritornello accattivante espressione dell’ottima forma in cui Williams si trova.
Petals for armor è solo l’inizio, quell’I indica sicuramente l’arrivo di altri capitoli, storie, ritmi e vocalità che aspettiamo con impazienza.
Marilyn Manson – ‘Holy Wood (In the Shadow of the Valley of Death)’
https://www.youtube.com/watch?v=Gdaf7vrdIew
È tutto vero, sono passati 20 anni dall’ultima ispirata uscita dii Brian Warner, lo zio Marilyn Manson che con questo disco concludeva la trilogia iniziata con Antichrist Superstar e proseguita con Mechanical Animals.
Ritornato ad un suono più incisivo e dissacrante, Warner sperimenta forse un po’ di più rispetto al secondo disco e purtroppo in molti non capiscono dove voglia andare. Già, perché per quanto suoni davvero rabbioso e potente, il disco risulta, a molti, male eseguito, riscuotendo un modesto successo, essendo rivalutato solo in seguito vendendo oltre 10 milioni di copie nel mondo. A 10 anni dalla sua uscita la rivista specializzata Kerrang! Ha definito Holy Wood come “L’ora migliore di Manson […] Dieci anni dopo, non si è ancora visto un altro attacco così eloquente e violento nei confronti della cultura mainstream [… È un lavoro] ancora causticamente rilevante [e] fa onore ad un uomo che si è rifiutato di sedersi e incassare le accuse, e se n’è invece uscito pieno d’energia”.
Cosa è cambiato dai primi dischi? Beh, prima di tutto Marilyn Manson è diventato un personaggio di rilievo nel mondo musicale e non solo, ed ha tentato di fare una somma delle sue esperienze riservandosi spazi aperti anche a motivi più pop e glam, poi nel 2000 poteva godere di ottimi musicisti. L’album è infatti l’ultimo con la formazione storica della band, cui pochi anni prima si era aggiunto anche il talentoso John 5 alle chitarre che è responsabile del suono accattivante ed elettrico della band. I singoli usciti fanno parte ormai della storia della band: Disponsable Teens, The Fight Song, The Nobodies, arricchiscono un disco davvero energico che anche dopo 20 anni riesce a sembrare quantomeno creativo e molto personale. Ovviamente i richiami mistici e maledetti di Warner si fanno sentire, così come le sue tematiche contro la società, la politica, il perbenismo e la falsa moralità occidentale. I critici hanno subito bene accolto Holy Wood, sostenendo l’ormai comprovata tecnica affabulatoria di Manson e delle sue canzoni toccanti, potenti e controverse. Barry Walters di Rolling Stone disse: “la band fa vero rock: è un solco malefico che rimpolpa le lamentele usuali del frontman con un’esilarante spavalderia che è l’essenza del rock and roll”. Christopher Scapelliti, editore di Revolver Magazine fu invece più impressionato dalla serietà del disco, e affermò che “per tutta la durata delle melodie temperate e del pandemonio ubriaco di ‘Holy Wood’, ciò che salta fuori più forte non è la musica, ma il senso di sofferenza espresso nei testi di Manson. Come la Plastic Ono Band, essenziale debutto di John Lennon da solista, ‘Holy Wood’ urla con una furia primitiva che è evidente anche nei momenti più tranquilli”.
Al disco è poi seguito un bellissimo tour intitolato Guns, God and Government Tour, durato quasi un anno, per oltre 100 spettacoli, in cui la band ha dato il meglio (e il peggio) di sé tra simboli comunisti, religiosi, armi, divise naziste e tante altre chincaglierie dell’ormai affaticato Manson pensiero. Tuttavia era il momento giusto per presentare un disco del genere, il 2001 avrebbe segnato uno spartiacque importante per tutti. Ma con Holy Wood le torri di New York sono come già abbattute da una potenza sonora oggi irriconoscibile. Sono Già passati davvero 20 anni.
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