Musica

Soundtrack – I dischi della settimana, 5 febbraio

5 Febbraio 2020

Nonostante il pieno periodo sanremese in cui l’Italia si trova attualmente, ecco alcuni dischi da ascoltare e riascoltare per rimanere al passo coi tempi. Ho deciso di includere ogni settimana 4 album appena usciti o in anteprima e almeno un disco storico che compie gli anni proprio nel 2020.

ISOBEL CAMPBELL – THERE IS NO OTHER

L’assenza di Isobel Campbell si è fatta sentire per quattordici lunghi anni. Dopo una fortunata carriera con i Belle & Sebastian e memorabili collaborazioni con Mark Lanegan ecco arrivare There Is No Other che sarà disponibile tra pochissimi giorni. Una voce profonda e un album interessante dalle contaminazioni vagamente elettroniche che mettono in risalto non solo la voce, ma anche l’ensemble di musicisti che ha collaborato al disco come il chitarrista Jim McCulloch (Soup Dragons), il tastierista Dave McGowan (Teenage Fun Club), Elijah Thomson (Father John Misty, Everest) e dal polistrumentista Nina Violet (Willy Mason, Evan Dando, Marissa Nadler). The Heart Of It All è una canzone splendida, una sorta di dream folk in cui non manca nulla e che abbaglia per la sua costruzione così lucida e allo stesso tempo misurata. Il titolo stesso dell’album è un esempio di pratica meditativa cui Campbell si è ispirata per trovare una pace interiore soprattutto durante le vicessitudini legali che hanno fatto ritardare la pubblicazione del nuovo lavoro. Hey World, a metà disco rappresenta una ritrovata vitalità e serenità interiore che si rafforza con The National Bird Of India in cui gli archi predominano nella fine del brano come a dare un tocco di esotismo e tipiche trame artefatte dal sapore orientale. Dalla copertina si capisce che Campbell sembra essere tornata ad un età dell’innocenza in cui la spiritualità riveste la stessa importanza della capacità di scrivere canzoni. Per questo There Is No Other è un disco da ascoltare, magari di notte, sognando paesaggi pieni di colore e armonie e profumi poco differenti da quelli della controcultura giovanile quasi 60 anni fa.

TORRES – SILVER TONGUE   

Mackenzie Scott torna con un nuovo lavoro dopo 3 album che l’hanno fatta conoscere al mondo ma che l’hanno anche fatta girare da un’etichetta all’altra, alla ricerca di un’indipendenza creativa e di contenuti. Diciamo la verità, Torres è un’artista che ha bruciato le tappe, ha sempre avuto tante cose da dire e non ha mai lasciato che qualcuno la imbrigliasse in un percorso che a lei non piacesse. Oggi la troviamo in una veste più cantautoriale rispetto al passato, ma comunque sempre ammiccante verso un genere di musica che non possiamo definire tradizionalmente pop. Una canzone come Gracious Day, ad esempio, è di una delicatezza disarmante. Stiamo parlando di una voce estremamente versatile, a volte gracile e a volte dannatamente preponderante su tutto l’arrangiamento musicale. Un pezzo come Good Grief rende giustizia alle capacità di Torres, rappresenta la sintesi della sua esperienza musicale precedente, fatta di contaminazioni elettroniche, chitarre rock, ritmo marziale con una linea di voce sopra le righe, enfatizzata da un uso sapiente di meccanismi digitali che si sentono ma non sovrastano una scrittura diretta e personale. Più rarefatta l’atmosfera di A Few Blue Flowers, concede infatti a Torres di spaziare con l’austerità della sua voce diventando quasi un richiamo (come nella copertina) ad entrare più a fondo nelle trame di un disco di cui sentiremo parlare.

INE HOEM – HUNDRE DAGER

Questa volta vi porto in Norvegia, uno dei paesi più freddi d’Europa. Chi l’avrebbe detto che in uno dei paesi noti soprattutto per l’emergere del death Metal ormai 20 anni fa, avremo trovato un animo angelico come Ine Hoem? Ine canta per la prima volta nella sua lingua d’origine e per documentare meglio il processo creativo che l’ha portata alla pubblicazione dell’album ha anche dato vita ad un documentario di 23 minuti in cui racconta i suoi pensieri e i segreti del suo songwriting, 100 giorni di gestazione passati assieme ai musicisti che hanno fatto assieme a lei il percorso per la pubblicazione del disco. Ine non ha fatto mistero di aver cercato a tutti i costi di alleggerire le canzoni da un peso che avrebbe finito per renderle meno genuine. Ci troviamo così di fronte ad un brano come Hva hadde skjedd da che rispecchia in pieno l’animo dell’album, un’atmosfera rarefatta, sognante, in cui la voce impreziosisce e ricama una veste morbidissima  addosso ad un tessuto sonoro già labile e delicato. 1998 invece è un bell’episodio pop che aggiunge una nota di colore e freschezza ad un disco che, sebben ponderato, stenta davvero a decollare. Tutto sommato il disco funziona, è coerente e omogeneo ma sembra quasi essere limitato da qualcuno o qualcosa nello spiccare il volo. La voce di Ine Hoem è chiara e precisa, non fa sbavature, ma forse non trova l’appiglio giusto per poter emergere al di sopra di tutto. Prendiamo questo disco come una prova sufficiente, ma possiamo pretendere di più perché Hoem ha dimostrato di avere le basi giuste per mettersi in evidenza.

OJIBO AFROBEAT – OJIBOLAND

Afrobeat in Lituania? Cosa può aver fatto scattare la molla dell’amore per il ritmo africano in una band così lontana geograficamente dal continente equatoriale? Chissà! Fatto sta che gli Ojbo Afrobeat hanno appena pubblicato il loro primo disco e anche, in assoluto, il primo album lituano interamente dedicato ad un genere meno baltico e più sahariano. La speranza è una, dicono dalla band: “Vogliamo che Ojiboland si affermi sulla mappa musicale come uno spazio in cui rilassarsi e godersi i vibranti ritmi africani”. Ojibo in Nigeria significa “uomo bianco” e nulla poteva essere più esplicativo di così. Dal vivo la band può contare su ben 8 musicisti che sono pronti a fare impazzire il pubblico in un’atmosfera colorata e divertente. Sì perché Ojiboland è uno di quei dischi che esprimono il meglio di se stessi quando sono portati in giro, in mezzo alla gente, ricchi di creatività e facili da trasformare in un ballo senza fine. L’afrobeat, per chi non lo conoscesse, è un genere musicale che ha avuto molto successo in Europa dopo essere nato in Africa occidentale negli anni ’60, mescolando generi come funk e jazz americano. Non possiamo non citare il padre del genere, Fela Kuti, eroe indiscusso e icona non solo musicale per tutta l’Africa, e non dobbiamo dimenticare musicisti come Manu Dibango, Akoya Afrobeat, Tony Allen, Cymmandee e Funkees, oltre che i figli naturali di Fela: Femi e Seun Kuti che hanno proseguito degnamente la strada disegnata dal padre, portando l’afrobeat ad essere conosciuto ad un livello planetario. Gli Ojobo Afrobeat sono invece 3 musicisti: il batterista Gediminas Stankevičius, il chitarrista Arūnas Blažys e il sassofonista Karolis Levarauskas e con sole 5 tracce sono riusciti a dar vita ad un ottimo disco dagli stessi colori e profumi dell’Africa. Questo vuol dire che non è importante esser nati in un altro continente, quando la musica ce l’hai nel sangue puoi permetterti questo ed altro.

PJ HARVEY – TO BRING YOU MY LOVE

Sono già passati 25 anni, un quarto di secolo, eppure un disco come questo non ha ancora perso il suo smalto e la sua potenza comunicativa. Ok, sulla carriera di PJ Harvey non si scherza. E non si può nemmeno soprassedere sul fatto che se ti piace ascoltare la musica, non puoi fare a meno di farti venire la pelle d’oca ascoltando To Bring You My Love.
Negli anni ’90 è stato possibile dividere i dischi pubblicati prima e dopo la morte di Kurt Cobain, questo lavoro, il quarto di Polly Jean, arriva nel 1995 e rappresenta una scena musicale alternativa in completo smarrimento, da cui PJ emerge ancora sporca di trucco, magrissima, e con tanta rabbia dentro, riversata senza risparmiarsi sulle canzoni e sui testi che diventano poesia underground sofferta e allucinata. C’mon Billy è decisamente una traccia che è stata composta per rimanere impressa, è energica ma allo stesso tempo malinconica ed arrabbiata, sebbene conservi un tono acustico e molto artigianale. Harvey suona quasi tutti gli strumenti e si sente che il disco è una sua personale creazione, soprattutto in una traccia come Teclo, in cui la sua voce poetica riesce ad imprimere ad un’armonia di base un sigillo di qualità artistica davvero inarrivabile. Ma nel disco troviamo anche pezzi come Long Snake Moan, esagerato pezzo rock in cui non manca nulla e che vede la collaborazione con John Parish raggiungere i massimi livelli. Insomma, abbiamo finito per celebrare un disco cardine degli anni 90, che compie 25 anni e se li porta bene. Abbiamo imparato che con sole 10 canzoni Pj Harvey è riuscita a costruire un album che l’ha consegnata alla storia, proseguendo la strada di poetesse come Patty Smith. Speriamo che esca una bella edizione con qualche novità, sarebbe proprio il caso.

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