Musica
Soundtrack – I dischi della settimana, 29 gennaio
Secondo appuntamento settimanale con Soundtrack, gli album appena usciti da ascoltare per rimanere al passo con i tempi, digitali o analogici, della musica rock e pop contemporanea.
Destroyer – Have We Met
Arriva al tredicesimo album il progetto Destroyer di Daniel Bejar, che dopo aver esplorato gran parte dei ritmi e delle armonie rock anni ’70 e ’80, apre il nuovo anno con un disco molto atteso dai fan. Dagli anni ’90, in cui il gruppo è nato, Bejar ha fatto notevoli passi avanti, passando dal registrare canzoni su cassetta, al trovarsi a che fare con strumentazioni digitali, pervase da un’elettricità di fondo che non è mai mancata. I testi, che col passare del tempo sono diventati più sofisticati e divertenti, rendono l’esperienza Destroyer sempre più confortante e familiare. Cosa troviamo di nuovo in Have We Met? Sicuramente ritmi più funky, elettronici, come in Kinda Dark e Cue Synthesizer, toni più moderni, caldi e invitanti rispetto ai dischi precedenti, di un’intimità struggente come in University Hill e foolssong deliziosi appetizer dalla facile presa romantica. Ci sono anche episodi notturni come It Just Doesen’t Happen che appaiono come strade buie illuminate da luci al neon, con sintetizzatori che riescono a toccare il cuore pur nella loro semplicità. I primi demo di Bejar sono state rielaborate dal produttore e bassista John Collins assieme al chitarrista Nic Bragg che per questo disco formano un trio saldo e coeso, tanto da far apparire il lavoro come l’elaborato di una band completa in tutte le sue parti, creative prima di tutto. Sicuramente l’afflato poetico di Bejar costituisce il centro dell’esperienza musicale di Have We Met, diventando un vero e proprio capolavoro in un pezzo come The Raven, essenziale ma profondamente cerebrale. Un disco sofisticato quindi, ma bello in ogni sua parte, da ascoltare per capire dove può spingersi la letterarietà con il supporto della musica pop.
Gabrielle Aplin – Dear Happy
Dear Happy è il terzo disco della carriera di Gabrielle Aplin che dopo due ottime prove prosegue per la sua strada, esplorando territori più pop che mettono in risalto la maturità ormai raggiunta dopo circa 10 anni di carriera. I testi delle nuove canzoni riflettono il quotidiano, parlano di amore e di tante altre vicissitudini della vita e sono cantati cono una voce limpida, espressiva e delicata. Le trame elettroniche dietro ai vari brani non complicano struttura dell’album che rimane un chiaro esempio di vademecum su come filosofeggiare abilmente tramite brani ritmati, ballad introspettive ed episodi più sostenuti come la bellissima Strange. Impossibile non rimanere abbagliati dai cori, vero punto di forza di tutta la produzione della Aplin che la trasforma in un fenomeno radio-friendly che non dà assolutamente nulla per scontato.
C’è poi un brano come My Mistake che fa breccia nei cuori senza troppa fatica, in cui la voce guida l’ascolto sino a renderlo surreale e quasi onirico. Siamo di fronte al miglior album della Aplin, un progetto solido, personale in cui le linee vocali sembrano la guida per qualcosa di più alto delle onde radio o di una cassa che suona in una stanza qualsiasi di una remota parte del mondo.
October Drift – Forever Whatever
Ok, gli October Drift arrivano a pubblicare questo disco dopo diversi EP, tour e comparsate un po’ ovunque per far sentire la propria musica. Sono stati 5 anni intensi che forse avrebbero scoraggiato diverse band dal continuare a rimanere appese ad un filo per raggiungere il meritato successo. E la malinconia di aver dovuto combattere per “distruggere” il sistema musicale si sente tutto nelle 10 tracce che compongono Forever Whatever che non è solo un punto di inizio ma anche una dichiarazione di intenti, un testamento per quello che sarà, per tutta l’acqua che levigherà la pietra di un esordio studiato e pianificato nei particolari. Già dalla introduttiva Losing My Touch si mette in chiaro che gli October Drift fanno sul serio e prendono per mano gli ascoltatori attraverso un brano che potrebbe benissimo uscire dalla mente di qualcuno con ben più esperienza. Il disco non pecca però di alcune incongruenze, tracce come Cinamon Girl o Don’t Give Me Hope rivelano un talento manieristico che rischia di deludere o quantomeno rendere meno vivace il corpus dell’intero disco. L’uso delle chitarre è posto a creare un muro di suono senza compromessi, sono movimenti pesanti che spesso risultano stucchevoli e claustrofobici che però si adattano perfettamente alle liriche di Kiran Roy. Tutt’altro aspetto e una ben diversa riuscita è invece Milky Blue, arioso, spazioso e molto più licenzioso da un punto di vista ritmico tanto da poter essere benissimo inserito in un disco degli Arcade Fire senza uscirne indebolito dal confronto. Tuttavia è Naked la traccia più importante del disco, una chitarra acustica, un piano leggero, la voce di Roy che si pone al centro della scena. Nonostante le imperfezioni October Drift è un buon punto di partenza, si sente che è stato “partorito” con una gestazione difficile e sofferta, un disco molto personale, audace, tenero, sobrio e sincero.
Calibro 35 – Momentum
In Italia abbiamo musicisti bravissimi, che meritano di stare sugli stessi palchi di artisti internazionali che molto spesso li guardano con comprovata ammirazione. L’anno scorso abbiamo avuto la bellissima esperienza degli I Hate My Village con un disco dirompente dal sapore afrobeat di sicuro totalmente diverso da tutto ciò che veniva prodotto nel nostro Paese. Quest’anno il drumming di Fabio Rondanini è al servizio di un progetto che arriva alla settima prova discografica. Messi da parte gli stilemi del poliziottesco anni ’70, i Calibro 35 si rinnovano e danno vita ad un disco dal sapore più funk e talvolta trip-hop di bristoliana memoria. Non fa differenza quale genere venga dato in pasto alla band (forse meglio chiamarla ormai super-gruppo come si faceva tempo fa con i Cream o i Blind Faith), ognuno di esso viene elaborato e trasformato in un amalgama sonoro preciso e senza macchia. Questo lo dobbiamo all’eclettismo di tutti i musicisti coinvolti che si ritrova già nell’apertura di Glory – Fake – Nation, dal vago sapore industriale e rarefatta come nei solchi di un capolavoro come Dummy dei Portishead. Ma tale propensione non deve ingannare, perché in successione arrivano brani come Black Moon feat. MEI in cui il funk anni ’70 e l’hip hop trasformano l’atmosfera sino a renderla imprevedibile e impalpabile. One Nation Under chiude il disco con un tocco di stile, è un brano in cui si sente l’apporto di ogni musicista e in cui la coesione non annulla assolutamente la potenzialità di ciascun strumento. Non è facile mantenere così alto il livello della propria produzione a oltre dieci anni dalla propria nascita, ma sembra che i Calibro 35 ci riescano benissimo, anche portando sulle spalle il peso di altre band e altri progetti. Bravissimi.
Taste – Transmissions 1968-69
Non capita molto spesso di poter parlare dei Taste. Se ne legge anche molto poco, purtroppo. Eppure la band irlandese, nata nel 1966,ha segnato il primo sguardo sul mondo da parte di un chitarrista come Rory Gallagher che, a tempo debito, diventerà un’icona e un modello per il blues contemporaneo. Oltre a Gallagher troviamo Eric Kitteringham al basso e Norman Damery alla batteria, un trio che si fece le ossa suonando nella nativa Irlanda ma anche in Europa prima di raggiungere un discreto successo. Nel 1968 iniziano i primi concerti nel Regno Unito, ma la band si scioglie e si riforma con due nuovi componenti, Richard McCracken al basso e John Wilson alla batteria. Sarà con questa formazione che i Taste apriranno gli ultimi concerti dei Cream, assieme agli Yes. Con la nuova lineup la band incise due album, Taste e On The Boards e pubblicò una bellissima esibizione dal vivo come quella all’Isola di Wight del 1970, poi, inevitabilmente si sciolse perché Gallagher scoprì di essere stato truffato dagli altri membri del gruppo in combutta con il manager della band. Poco male, Rory inizierà una carriera solista formidabile dimostrando di essere un virtuoso della sei corde invidiato da molti colleghi e da molte band a lui coeve.
Transmissions ci regala alcune delle prime esibizioni con la band con cui Gallagher pubblicherà i due dischi essenziali dei Taste. Siamo di fronte a delle registrazioni totalmente imperfette, che suonano forse più acide di quanto probabilmente erano nelle intenzioni della band. In un pezzo come Born On The Wrong Side of Time troviamo però una potenza sorprendente, che esplode a metà brano come una bomba che deflagra e non lascia scampo. Le tracce, registrate nel programma radio Top Gear si inseriscono a fianco di quelle operate da gente del calibro di Jimi Hendrix, Beatles, Crea, Who, Pink Floyd, Led Zeppelin e Kinks e fotografano lo stato di grazia di un gruppo durato troppo poco per raggiungere le vette dei colleghi appena menzionati. Un disco per soli fans che vogliono scoprire tutto di Gallagher e della sua carriera, ma anche una testimonianza, sbiadita, di un mondo rock che non esiste più.
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