Musica

Soundtrack, i dischi della settimana, 27 maggio

27 Maggio 2020

Spesso ci dimentichiamo che il tempo passa per tutti, ed è per questo che quando qualcuno se ne va, per via del tempo, degli acciacchi e delle malattie, ci rimaniamo male, Questi mesi di pandemia ci hanno strappato grandi musicisti come Manu Dibango, Lee Konitz, Ellis Marsalis, ma ci hanno anche saputo portare un bel po’ di freschezza quand’anche un’icona della musica contemporanea, Tonny Allen, pur dovendoci lasciare ci ha regalato un ultimo disco assieme a Hugh Masekela da lacrime agli occhi. Ma andiamo per gradi.

The 1975 – Notes On A Conditional Form

A vederlo sembra un disco fatto per rispettare l’ambiente. Una copertina cartonata, qualche immagine in bianco e nero e nulla più. Premendo play inizia la prima traccia su cui si trova la voce di Greta Thunberg, o forse inizia un mondo, alternativo, che la band di Matty Healy ha costruito in tutti questi anni. Le canzoni da ascoltare sono tante, oltre 80 minuti di musica in cui ad avere la meglio è la discontinuità. People è l’unico pezzo decisamente rock dell’album. Un brano che è fatto apposta per svegliarti e chiederti perché sei ancora al mondo, per cosa lotti, per cosa sopravvivi. Poi la band di Manchester vira su territori decisamente più eterei. Una sinfonica The End prima di una sintetica Frail State Of Mind e una Birthday POarty decisamente pop. Sono tante picole annotazioni, che si susseguono in un ritmo assolutamente spontaneo, non lasciano che il disco sia coeso ma forse questo è solo quello che passava nella mente di Healy e Daniel, che figurano come i reali produttori di tutto il lavoro compiuto nei 2 anni di gestazione di Notes On A Conditional Form. Insomma i The 1975 hanno attraversato in ben oltre 20 canzoni diverse avventure stilistiche, apportando sicuramente intuizioni personali e diversi gusti e inclinazioni ed è forse questo a far sembrare l’album più una compilation che un progetto unitario, in cui i diversi generi attraversati sono una forza o meno, a seconda dei punti di vista. Molto interessanti sono i momenti strumentali che legano tra loro i vari brani ma forse allungano sin troppo la durata complessiva, insomma, alcune come Being No Head sono decisamente troppo cavillose e lunghe per poter risultare appetibili a qualcuno che non sia per forza un fan dei 1975, magari potevano essere inserite in una edizione deluxe, in modo da snellire un po’ di più il disco. Ma, tanto per tirare le fila, possiamo definire Notes On A Conditional Form come un concept-album? L’introduzione ambientalista (e il packaging) lo farebbero presagire, ma la troppa discontinuità di certo non è un punto a favore. Quindi, se dovessimo considerare 22 canzoni come una playlist allora tutto sarebbe al proprio posto e funzionerebbe bene, ma come capitolo a sè stante forse è il più debole dei dischi finora pubblicati dalla band. Ascoltate però l’ultimo brano, Guys, e troverete i 1975 in ottima forma, in una ballad in cui danno davvero il meglio di loro.

Tony Allen & Hugh Masekela – Rejoice

Tony Allen è stato uno dei musicisti africani più importanti e influenti dell’epoca contemporanea, legato eternamente alla figura di Fela Kuti e ai ritmi della Nigeria, Allen ha creato un suono che è ormai lasciato in eredità a tutti coloro che vorrano seguire la sua strada. Hugh Masekela, scomparso due anni fa, è stato altresì un grandissimo trombettista sudafricano, in prima linea per i diritti e icona del movimento anti-apartheid, ha lasciato una vastissima discografia che inizia dagli ormai lontani e gloriosi anni ’60 arrivando sino al nuovo millennio.

Rejoce è tutto quello che rimane di una sessione in studio tra Allen e Masekela avvenuta 10 anni fa. Parliamo di jazz dalle evidenti pigmentazioni africane, un disco spontaneo e fresco, a dispetto dell’età dei due musicisti, che si sono ritrovato a Londra per improvvisare assieme a qualche altro musicista senza darsi un obiettivo predefinito.

Mettiamo le mani avanti, questo non è un disco per affezionati del genere musicale generalmente definito jazz; la definizione risulta essere stretta e poco calzante. Rejoice è un disco per tutti, in cui si ascoltano benissimo i movimenti sulla batteria da parte di Tony Allen e in cui sono altrettanto in primo piano i voli liberi della tromba di Masekela. Un ritmo unico che accompagna melodie fantasiose e dal sapore “equatoriale”. Un ascoltatore medio può tranquillamente perdere la testa per un brano come Obama Shuffle Strut Blues o Jabulani, che sono davvero l’eredità che ci lasciano questi due giganti. Se riuscite potete provare ad ascoltare questo album in alta definizione, ne vale la pena, con un paio di buone cuffie si può sentire l’aria frizzante che si respirava in quei giorni a Londra, un’aria che fa venire la pelle d’oca, un testamento che dopo la morte di Allen è diventato davvero definitivo e imperituro.

Maita – Best Wishes

Portland, USA. Maria Maita Keppeler è al suo primo disco da cantante e chitarrista, un’ottima prova che mette in risalto le sue doti come autrice oltre che come musicista. Qualcuno potrebbe rivendicare la teoria secondo cui a Portland nascano degli artisti malinconici. Anche per Maita è così. Nonostante il titolo Best Wishes, il disco si apre con una delicata A Beast in cui gli arpeggi, la batteria e la voce pagano pegno ad un’atmosfera disincantata e di malcelata insofferenza. Uno dei pezzi migliori è il conclusivo che dà anche il titolo all’album, un brano in cui Maita sostiene che “le persone si indebitano e si innamorano / E guardano in fondo alla strada e dicono che una volta ti conoscevo”. Best Wishes è un capolavoro di intimismo e auto confessione, dove la cantautrice mette sul tavolo le proprie carte e le svela una dopo l’altra, insistendo sulle debolezze e sulle incertezze della vita, ma anche del voler essere a tutti costi come gli altri: “Dovrei volere ciò che tutti vogliono / amare ed essere pensati in modo gentile”. Insomma, strofe che spezzano il cuore ma anche momenti di grazia introspettiva che ribollono in un brano quasi grunge come Can’t Blame a Kid.

Il debutto di Maita è la prova che c’è sempre tempo per togliersi la polvere dalla giacca e mostrarsi al pubblico come si è, si tratta di un processo lento, non necessariamente indolore, ma sublimazione dell’esperienza materiale di un artista.

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