Musica
Soundtrack – I dischi della settimana, 22 gennaio
Questo è il primo numero di una rubrica settimanale che ho pensato di iniziare per Gli Stati Generali. Ascolto molta musica, credo sia, come dice David Byrne in un suo bellissimo libro (“Come funziona la musica”), la geometria della bellezza. E forse molto di più.
Ogni settimana, il venerdì, escono dischi nuovi, sono più o meno tutti calendarizzati tranne alcune uscite che riescono a rimanere segrete fino a poche settimane prima (di alcuni dischi che usciranno nel 2020 ne abbiamo parlato qui). Quello che mi proporrò di fare sarà fare delle brevissime recensioni per inquadrare meglio quali sono gli album che hanno destato il mio interesse, proviamo con 5 dischi per ogni settimana, raccontati al mercoledì, dopo un week end e qualcosina in più di ascolto.
Algiers – There Is No Years
Gli Algiers sono una band sui generis, tre dei componenti sono originari di Atlanta, mentre il “nuovo” batterista inserito nella band in un secondo tempo è Matt Tong, abbastanza conosciuto per aver suonato nei primi album dei Bloc Party, facendo un buon lavoro e dando un ottima connotazione alla band (soprattutto il primo album, Silent Alarm, è da avere). Gli Algiers sono un progetto interessante perché sin dal primo disco hanno cercato di porsi in un contesto di rottura tra il rock, il soul e l’elettronica, cercando di essere originali e mai ripetitivi. Possono farlo grazie alle ottime doti tecniche di tutti i componenti e soprattutto alla voce e alla sensibilità artistica di Franklin James Fisher, un frontman che non ha nulla da invidiare a tanti “istrioni” che lo hanno preceduto. There Is No Year è stato realizzato in un paio di settimane con due produttori, Ben Greenberg e Randall Dunn, che hanno cercato di stratificare le acerbe composizioni della band con l’uso di sintetizzatori ed elettronica, il risultato è ottimo. Ci sono alcune canzoni, come Unoccupied, che risentono meglio della produzione e sono molto più immediate delle altre, così come Chaka, probabilmente la più ammiccante dell’intero lavoro. Un caso a parte resta Void, in cui la band viene lasciata più libera di spaziare utilizzando al meglio le proprie capacità strizzando un occhio ai precedenti lavori, e permettendo alla creatività di Matt Tong di riuscire ad esplodere in 4 minuti di follia. Probabilmente There Is No Year sarà uno degli album destinati a rimanere nella storia della band, è assimilabile alla perfezione e al culmine – finora -, di una carriera che è stata sempre in crescendo. I dischi che usciranno da qui in poi, nel mondo dell’alternative rock, dovranno confrontarsi con gli Algiers.
The Big Moon – Walking Like We Do
Dopo un album di debutto convincente, tornano anche le Big Moon, che hanno appena concluso un tour in Uk assieme ai Pixies. Niente male per quattro ragazze che fanno del sano e onesto pop edulcorato spesso da armonie piacevoli e azzeccate. I richiami agli anni ’60, all’R&B e agli anni ’90 ci sono tutti, ma non ingannano e sono citazioni che possiamo accogliere con una certa benevolenza, soprattutto se a metà disco c’è un pezzo come Waves, corale, rarefatto, volutamente etereo che riesce a scremare la deriva pop, poi ripresa con una Take a Piece disegnata a tinte tenui e mai troppo marcate. La copertina del disco racconta forse di più di quanto si può trovare all’interno. Ci sono colline, colori, un cielo e le nuvole, un saliscendi di emozioni, accattivanti e allo stesso tempo molto lineari nella loro creazione. ADHD è una chiusura compiacente e degna per un lavoro che prosegue il buon inizio di 3 anni fa. Insomma, se volete ascoltare un disco pop che vi tenga compagnia per fare quello che vi piace e non vi annoi, allora Walking Like We Do fa al caso vostro.
Halsey – Manic
Sono ben 16 le canzoni che Halsey ha scelto di inserire nel suo nuovo album, una sorta di autobiografia, la storia di una ragazza di 25 anni come tante, divisa fra speranze, illusioni, problemi e insicurezza. “Tutto ciò che facciamo è pensare ai sentimenti che nascondiamo”, cantava Halsey in Drive, nel suo album di debutto di 5 anni fa. Con questo album l’artista esce allo scoperto e ci presenta se stessa senza alcuna maschera davanti, una nuova versione di Ashley (il suo vero nome) che ci racconta qualcosa di quello che ha imparato nel percorso della crescita personale e musicale. Si parla di amore, ovviamente, ma anche della disperazione causata da un aborto, di tensione emotiva e problemi, tanti problemi, spesso “maniacali”, talvolta bipolari (“I HATE EVERYBODY”). E poi ci sono le collaborazioni, una con Dominic Fine, una con il rapper BTS Suga e una con Alanis Morissette (la cui voce, purtroppo, sembra essere da un’altra parte), episodi che non aggiungono nulla di particolarmente rilevante al disco. Insomma, Halsey non ne aveva bisogno, il suo progetto, Manic, sta già benissimo in piedi da solo, è un disco sincero, emozionante ma che mette in chiaro anche la vulnerabilità di chi l’ha generato. Halsey ci prende per mano e ci fa conoscere il suo mondo ed è davvero bello poterla ascoltare mentre ci racconta la sua storia.
Poppy – I Disagree
Poppy, aka Moriah Rose Pereira, quest’anno compie 25 anni, tanti se confrontati con una popstar ormai celeberrima del calibro di Billy Eilish. Ma calma, Poppy è in giro da un po’ e con i suoi video insensati che sono circolati ampiamente su You Tube, ha creato una solida base di fans che l’hanno supportata a dovere quando è stato il momento di passare dal computer ai palcoscenici di mezzo mondo. Ora è arrivato con il terzo album nel giro di pochi anni. Un album che stupisce quanto a varietà di suoni, idee, voglia di strafare che non possono far altro che accendere ancor di più i riflettori su una delle più duttili e alternative figure pop/rock internazionali. Sì perché ascoltando una traccia come BLOODMONEY si può persino pensare di avere a che fare con un industial edulcorato per giovani mente eclettiche, mentre subito dopo, con Anything Like Me si passa ad uno scenario più levigato, pop, con quelle chitarre sgraziate che arrivano ogni tanto a rendere più metal il tutto, facendo shredding con il manico di una chitarra distorta fino all’inascoltabile. Nothing I Need invece è l’esempio di come la voce di Poppy possa essere in tutto e per tutto angelica, macchiata di crudeltà, certo, ma affascinante, mesmerizzante, destabilizzante, la voce di una star che non chiede niente perchè ha già tutto e non deve chiedere il permesso di essere quello che è, perché forse nemmeno lei lo sa cosa rischia di diventare, da qui a domani. Se osserviamo la copertina, ispirata ad un’iconologia tipicamente metal, possiamo subito associarla ad un brano come Bite Your Teeth, durissimo episodio di atroce insensibilità che a sprazzi si fonde con il J Pop zuccherato da adolescenti verso una fuga d’amore. Eppure non c’è nulla di strano a fare così tanta confusione. Se ascoltate un disco come I Disagree dovete essere pronti a questo ed altro, la signorina Pereira punta l’asticella in alto e gioca con vocalizzi solari come in Sick Of The Sun chiudendo il tutto con un brano che riassume la rissosità emotiva dell’intero album, un Don’t Go Outside in cui viene ripetuto nel modo più sibilinno possibile “tutto andrà bene” come fosse un mantra. Come possiamo definire quindi I Disagree? Probabilmente il miglior disco di Poppy finora, un qualcosa di indefinibile (come lei) che imbrazza, disorienta e mette a disagio sin dalla prima traccia. La sperimentazione di 10 tracce è perfettamente riuscita, animata da un complicato algoritmo sonoro umano e allo stesso tempo digitale, in cui il viso, l’immagine di chi canta, è evanescente forse più dell’idea che lega ogni brano. Poppy ha fatto il suo disco del 2020, ora tocca agli altri.
Helvetia – Fantastic Life
Gli Helvetia sono una band di Seattle fondata da Jason Albertini ormai 16 anni fa, dopo lo scioglimento dei Duster. Da allora la band ha prodotto una decina di dischi rimanendo sempre nell’area dell’alternative rock, sfruttando la interessante voce, duttile, di Samantha Stidham e dello stesso Albertini. Fantastic Life precede quello che sarà Devastating Map, in uscita a giugno. È un bell’affresco di lo-fi ben strutturato e pensato – come i riff di The Brink e Yawning -, che si incastra in atmosfere tipiche di una cantina dismessa con tanta polvere e ragazzi che si vogliono divertire alzando il volume dei propri strumenti. Se gli Helvetia ormai sono una band di culto lo devono alla loro ormai caratteristica facilità di mettere in sequenza canzoni a dir poco folli, seguite da episodi melodici e poi – perché no? – anche un pochino psichedelici. Registrato su 4 tracce, il nuovo disco è molto spesso distorto, dissonante, ma allo stesso tempo morbido (“Tripping Boy”). È uno di quegli album perfetti da ascoltare in sottofondo, sì, ma ha anche momenti degni di singoli, spazi che valgono da soli. Questo succede con “The Brink”, e anche con altri pezzi come “Yawning”, oppure “Visceral”, un ottovolante indie pop; o il progressivo “Fall Out”. Tra ponti medi, corti e alti si uniscono i binari mantenendo tensione e livello, come con il divertente “Hanging In A Car”; nell’acido “Tripping Boy”; o nella delicata “Wise Plant Girl”. Fantastic Life è un album che deve essere riascoltato, deve essere scoperto piano piano, non un capolavoro, ma un onesta opera artigianale fatta con tanto amore e divertimento.
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