Musica

Soundtrack – I dischi della settimana, 19 febbraio

19 Febbraio 2020

Ozzy Osbourne – Ordinary Man

È quasi impossibile non provare un certo sentimento di affetto nei confronti di Ozzy. Lo zio di tutti i giovani – e anche meno giovani – fans del rock’n’roll torna con un disco dopo ben 10 anni di assenza dal mercato. Lo fa in grande stile, dando alla luce una sorta di lascito testamentario alle generazioni future che forse si chiederanno cosa significhi essere davvero una rockstar, in un mondo la cui attenzione è rivolta ormai soprattutto ad una dimensione più pop della musica.
Insomma i tempi cambiano, ma il cuore di chi ha fatto la storia di un genere rimane sempre lo stesso e così lo ritroviamo invecchiato con addosso una brutta malattia ma pur sempre il buon vecchio Oz, il primo e l’ultimo cantante dei Black Sabbath, il re delle tenebre e di tutti coloro che hanno seguito con pazienza la sua altalenante carriera da solista assieme a compagni di viaggio indimenticabili come Randy Rhodes e Zakk Wylde ovviamente.
Questa volta ad assistere Ozzy ci sono due tipi in gamba come Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers e Duff McKagan dei Guns N’Roses, che fanno un bel lavoro per sostenere la sua voce dissacrante. In una traccia come Goodbye possiamo riascoltare un incipit molto simile a quello di Iron Man, cui fa seguito un ritmo frenetico suonato come fossimo ancora a 45 anni fa. L’alchimia tra i vari musicisti si sente e dà linfa vitale all’intero progetto, con Ozzy che viene sostenuti da Smith e McKagan e spronato a fare un album difficile ma allo stesso tempo liberatorio su cui ha vigilato anche uno dei produttori più cool del momento, Andrew Watt, che ha tenuto testa alle reticenze e alla debolezza di un istrione ormai stanco costringendolo a “metterci tutto il cuore e tutta l’anima” per arrivare a registrare 11 brani da cui si respira realmente aria di libertà.
Under The Graveyard è un bellissimo esempio di come sia possibile costruire una sorta di piccolo manuale prog stampandoci sopra l’effigie di Osbourne, molto diverso dalla successiva Eat Me, in cui si risvegliano momenti più canonicamente hard rock o Today Is The End, una ballata acida tipica del repertorio di Ozzy.
E poi c’è il gran finale, due brani feat. Post Malone in cui l’attempato re delle tenebre sembra davvero divertirsi, soprattutto in un brano veloce e fantasioso come It’s A Raid, due tracce la cui presenza è però estemporanea e la cui presenza potrebbe anche non esserci stata, lasciando forse il disco più coerente con se stesso.
Ok, dobbiamo dirlo, Ordinary Man non è la fine del mondo, ma a cantare è The Oz e dobbiamo certamente rispettarlo. È un Ozzy che si fa guidare e aiutare negli anni in cui riesce a muoversi sempre più malamente, ma il suo timbro di voce è inconfondibile così come la sua voglia di strafare e prendere tutto in maniera dissacrante, rimanendo sospeso tra la pantomima e la reale follia. Ascoltare questo regalo, dopo 10 anni, ne vale la pena.

Puss N Boots – Sister

L’ultima uscita di questo progetto estemporaneo di cui fanno parte Sasha Dobson, Catherine Popper e Norah Jones risale a 6 anni fa. La conoscenza tra le componenti e la loro carriera personale ha fatto sedimentare la loro collaborazione fino a portarle all’uscita di un nuovo lavoro, una bella raccolta di brani in cui la linea vocale sembra uscita dalla colonna sonora di un film.
Da un punto di vista tecnico dobbiamo prendere questo album come un delicato divertissement in cui prevale un taglio artigianale e quasi casalingo che riesce a riscaldare di più l’atmosfera rispetto a quella che sarebbe stato l’asettico concepimento in uno studio sempre troppo piccolo per ospitare tre grandi personalità come queste tre. La voce di Jones è sempre la più riconoscibile ma non predomina sulle altre, e ciò rende tutto molto più coerente. Ci sono esperimenti country come Lucky o Razor, alcune invasioni in territori più rock come Nothing You Can Do e un brano terribilmente adorabile come You And Me che è pronto a sciogliere anche i cuori più duri.
Sostanzialmente per approcciare un disco come Sister dobbiamo entrare nella mentalità con cui è stato registrato, una sorta di disincanto da cui escono anche interessanti cover come quelle di It’s A Wonderful Lie di Paul Westerberg e Angel Dream di Tom Patty con Norah Jones alla voce principale e The Grass Is Blue di una Dolly Parton semi dimenticata cui cui il trio ha scelto di chiudere il disco.
I riferimenti delle Puss N Boots sono tanti e riconducibili all’esperienza musicale americana, sono emozionanti in alcuni brani, manieristici in altri, ma comunque eseguiti col cuore e con una certa familiarità da quasi “sorelle” che condividono una grande passione per quello che fanno. Ci sono tanti modi di ascoltare un disco come questo, inutile dire che lasciarlo scivolare sul piatto del proprio giradischi in una assolata domenica mattina, assieme ad una tazza di caffè può risultare quasi salvifico e vi sembrerà di avere queste tre donne, così talentuose, a suonare per voi, nel vostro soggiorno, dietro la vostra poltrona preferita.

Mura Masa – R.Y.C.

Cosa fa un giovane d’oggi per sentirsi così profondamente solo, pieno di paure e di angoscia. Lo ha spiegato il 23enne produttore Alex Crossan (Mura Masa) che ha recentemente dichiarato di trascorrere tutto il suo tempo libero “giocando a vecchi videogiochi, guardando cartoni animati e mangiando cereali”, riascoltando con passione la musica che ha plasmato la sua giovinezza.
Da questo stato d’animo è nato il secondo album del progetto Mura Masa: R.Y.C. che sta per Raw Youth Collage, una sorta di testamento giovanile su quella che è stata la vita in questo inizio millennio.
Crossan ha ascoltato un bel po’ di cose e ne è rimasto affascinato, si è sorbito la sua dose di post-punk, emo e britpop e ne ha fatto un bel mescolone mettendoci dentro i sogni della sua adolescenza ormai andata. I suoi maestri? Kevin Parker sicuramente, Damon Albarn, tutta gente che non si è fatta problemi nel prendere in mano tutti gli strumenti e dare vita ad una one man band che ha prodotto anche delle cose appetitose. In R.Y.C. ci sono tanti ospiti, è vero, ma nessuno di loro riesce a mettere in secondo piano la personalità predominante di Alex Crossan, in quella che possiamo definire come una riuscita retrospettiva di anni che non ci sono più, che sono recenti e che continuano però ad emozionare come in una traccia come I Don’t Think I Can Do This Again in cui la voce di Clairo si adagia benissimo sulle trame sonore ordite da quello che sembra un ormai esperto produttore. La verità è che per questo disco Crossan ha cercato il meglio per se, e l’ha impiegato in canzoni bellissime come Today, Live Like We’Re Dancing e Teenage Headache Dreams in cui la voce graffiante di Ellie Rowsell diventa mansueta e colora vivacemente un pezzo uscito direttamente dagli anni ’90. Gli episodi in solitaria non sono comunque da meno, soprattutto in un brano come In My Mind, una sorta di ballata elettro folk psichedelica lasciata a maturare tra cavi elettrici e ritmi dubstep.
R.Y.C è un disco da prendere alla leggera, non è un capolavoro, ma si lascia ascoltare, soprattutto per il divertimento con cui Crossan ha assemblato i vari pezzi cercando di dare loro una coerenza di fondo. I bei tempi però sono andati, inutile guardarli con rabbia, c’è bisogno di qualcosa di nuovo e questo disco è un tentativo con uno scopo differente, ricordare, smembrare, ricopiare, che seppur fatto con garbo lascia pure il tempo che trova.

Khruangbin – Texas Sun

Sui Khruangbin non si può dire nulla, li si ama e basta.
Hanno un sound così straordinario, elettronico, funky, soul e via dicendo che con la loro musica riescono a riempire vite intere. Sono una band che ha delle influenze che arrivano da praticamente ovunque e con 3 album alle spalle possiamo dire che di loro sentiremo sicuramente parlare, ovviamente in toni elegiaci e quasi divinatori. Capita che la band americana, lo scorso anno, si trova ad aprire i concerti di Leon Bridges e insieme capiscono che da qualche session in studio sarebbe potuto nascere un progetto interessante, ci credono e danno vita a 4 tracce per circa 20 minuti di musica. La musica dei Khruangbin è inconfondibile, la voce di Bridges riesce a rendere ancora più caldo il suono, evocando come una sorta di viaggio immaginario tra le assolate strade del Texas, lunghi percorsi d’asfalto da percorrere con i finestrini abbassati.
Il drumming in ogni traccia punta all’essenzialità, mentre le chitarre languono e fanno da soffice contorno alla voce di Bridges che regge bene il gioco senza mai eccedere nei personalismi e nell’eccentricità.
Texas Sun è forse un episodio unico nella carriera di entrambi gli artisti, non possiamo saperlo, quello che ci piace è però sapere che per un momento le loro vite si sono incrociate ed hanno generato qualcosa di bello, che merita di essere ascoltato.

Pink Floyd – Atom Heart Mother

Sono già 50 per uno degli album più conosciuti – soprattutto per la copertina – dei Pink Floyd. Niente di più sobrio, una mucca, un prato e tanto prog, quello che doveva essere poco più di un riempitivo è diventato a tutti gli effetti se non un capolavoro quanto meno un disco imprescindibile per chi decide di addentrarsi nella carriera dei Floyd. L’ascolto non è semplice, c’è una bella suite d’apertura che non è di immediata comprensione ma che nonostante tutto ha condotto l’album alla prima posizione in classifica ed ha permesso al gruppo di prendere gli strumenti ed imbarcarsi nel loro primo tour in America.
La band però non era entusiasta della riuscita del disco, anzi in certe dichiarazioni David Gilmour lo ha fatto decisamente a pezzi, definendolo come spazzatura; e nemmeno Roger Waters è stato molto carino, tanto da scherzarci su e dire che un album del genere non l’avrebbe mai più risuonato manco per un milione di sterline. È quindi un disco che dobbiamo mettere da parte? Beh, spesso i commenti autocritici dei Pink Floyd non devono farci impressionare. Atom Heart Mother è un disco “strano” della band inglese, ma non per questo da considerarsi come un qualcosa di trascurabile all’interno della loro monumentale discografia. Se lo ascoltate in vinile (ascolto per cui era stato concepito), troverete un intero lato dedicato alla prima traccia e poi la seconda facciata in cui trovano spazio 3 canzoni scritte da 3 componenti differenti (Waters, Wright e Gilmour) e una traccia “umoristica”.
Possiamo dire che in questo lavoro i Pink Floyd abbiano voluto strafare, hanno messo all’interno di un disco tutta la loro esperienza, allontanandosi un po’ dal mondo della psichedelia in cui erano nati e in cui avevano fiorito per dare prova della loro abilità come compositori in pezzi strutturati e complessi come quelli tipici del progressive rock. Ci sono riusciti? Stando a pubblico e critica sì! Atom Heart Mother è un album che oggi possiamo definire “cardine” nella storia del rock, ma come tutte quelle opere generazionali ha bisogno di essere interpretato con attenzione e senza fretta. Ha maturato 50 anni ed è ancora più bello di prima.

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