Musica

Soundtrack – I dischi della settimana, 12 febbraio

12 Febbraio 2020

Dopo l’abbuffata sanremese, condita con polemiche e squalifiche, torniamo ad occuparci di musica nuova, appena uscita, che sta movimentando i cuori e le casse di molti addetti ai lavori e semplici ascoltatori. Come nelle passate rubriche ci saranno 4 album freschi di stampa e uno che compie il traguardo di decenni dalla sua prima uscita. Pronti? Iniziamo!

Ok Kaya – Watch This Liquid Pour Itself

Parlare di Kaya Wilkins non è semplice. Potremo parlare di lei come attrice, come modella e anche come cantautrice. Oggi però preferiamo ascoltare il suo lato musicale, dato che è tornata dopo 2 anni dall’esordio con un disco molto interessante e degno di nota. Watch This Liquid Pour Itself è un album giocato sull’elettronica e sul minimalismo, non c’è una nota in più rispetto a quelle necessarie per sostenere un cantato dolcissimo e sognante. È il modo di interpretare ogni brano che sorprende positivamente. Ascoltando un brano come Insert Generic Name veniamo a contatto con una delicatezza cui è impossibile resistere. Ma attenzione perché Kaya in questo disco si mette a nudo, scopre le carte e racconta tutto di sé, dei propri disturbi mentali, dell’essere donna, del voler essere qualcuno e della sua sicurezza nello scrivere di amore e sesso. Overstimulated, ad esempio, è una poesia in cui Kaya esprime il disagio di essere spesso “sopravvalutata”, “Sarò la forma strana che fa male…potrebbe succedere di tutto, perché sono sopravvalutata”. In Psych Ward parla del trattamento che le è stato riservato in una clinica di igiene mentale:
“Butta via la tazza, meglio ingoiare la pillola
Nel reparto psichiatrico (Nel reparto psichiatrico)
Tutti indossano quei camici azzurri
Nel reparto psichiatrico”.
Kaya ha in testa un progetto ben definito, che va ben oltre le proprie capacità, e la cosa interessante è che riesce a reggere ogni aspettativa replicando, migliorando il suo esordio con una leggerezza a tratti commovente. Ogni brano è misurato, completo e non sovrabbonda di isterismi cerebrali a cui sarebbe stato facile lasciarsi abbandonare per parlare di sé in modo critico. Possiamo parlare di concept album? Sicuramente l’amalgama musicale c’è e si sente, ma forse è meglio considerarlo come un diario intimo messo con eterea sensibilità a disposizione di tutti quelli che sono disposti a prendersi il tempo di ascoltarlo e sognare.

Tame Impala – The Slow Rush

Il progetto di Kevin Parker non era forse quello di salvare il rock’n’roll ma con questo disco procede bene sulla strada tracciata da Currents. Chi significa? Beh che i Tame Impala rimangono se stessi, prendendosi il main stage dei festival estivi, ponendosi come extrema ratio per un genere che ha ormai subito troppe contaminazioni per potersi dire “immutato”. Fatto sta che Parker è diventato un produttore di successo sia per titani dell’hip hop come Kanye West, che per popstar come Lady Gaga (da ascoltare il suo lavoro in una traccia come Perfect Illusion) ed è logico che i suoi orizzonti siano diventati ben più lontani di quelli ormai raggiunti con Currents
5 anni dall’ultimo album sono abbastanza per aver pensato a qualcosa di meraviglioso, anzi, non hanno fatto altro che accrescere l’hype in attesa di un lavoro che i fan – come me, lo ammetto -, aspettano frementi da tempo. Ok, abbiamo dato tutto il tempo necessario a Kevin, e ne è valsa la pena?
Sì, decisamente sì!
Quasi un’ora di musica all’altezza di tutte le prerogative, un disco pop con elettronica che non sovrabbonda ma c’è, si sente e si gusta fino in fondo. Una delle canzoni più intense del disco è Postumous Forgiveness, un confronto con il padre ormai defunto, una riflessione sulla loro delicata relazione familiare e sull’essere diventato una superstar:
“Voglio dirti di quando
ero in Abbey Road,
O di quella volta che ho avuto
Mick Jagger al telefono”
Non potevamo che aspettarci una produzione meticolosa e decisamente creativa, ed è questo che fa sembrare il disco veramente fenomenale, fatto di canzoni eteree, dense di atmosfera, spaziali, con un design del suono curato nei minimi dettagli. Sono cose che solo Kevin Parker riesce a fare, signori! Is It True insegna come costruire una canzone pop anche a gente come i Daft Punk, il groove ti prende e ti rapisce facendoti guizzare senza mai stare fermo.
Certo, ci sono episodi come Borderline e It Might Be Time in cui si eleva a potenza ogni spirito creativo, e si sente la mancanza di un ottimo singolo uscito lo scorso anno come Patience, ma in un disco come questo riesce davvero difficile trovare dei difetti.

Bonny Light Horseman – Bonny Light Horseman

L’estemporaneità di un trio come quello composto da Anaïs Mitchell, Eric D. Johnson (Fruit Bats, Shins) e Josh Kaufman (Craig Finn, Josh Ritter, The National, Hiss Golden Messenger) non significa necessariamente che una collaborazione spontanea possa essere meno coesiva di una più stabile. I Bonny Light Horsemen si esibiscono insieme da un paio di anni e il loro disco omonimo è la realizzazione di un progetto che ha avuto il tempo necessario per rodare e macinare chilometri prima di approdare in studio.
Siamo di fronte ad un album squisitamente folk, ma è meglio non dare troppe definizioni se non dire che le canzoni che lo compongono sono prettamente acustiche e davvero senza tempo. Insomma, chi vuole può tornare indietro nel tempo, immaginare gli anni ’70, o anche quelli precedenti, queste canzoni non hanno davvero un’età o un luogo di riferimento. Ascoltate gli arpeggi iniziali di Magpie’s Nest, è una delle sonorità più dolci e confortanti che potreste aver ascoltato da anni a questa parte, così come Mountain Rain, sostenuta da un ritmo cadenzato che sa di vecchia storia, raccontata davanti ad un caminetto acceso, in una vecchia casa sugli Appalachi. Vi è poi Jane Jane, un tradizionale inno del sud, delicato e vagheggiante, country e movimentato.
Il disco è è nato sotto l’etichetta di un certo Bon Iver, questo può spiegare molte cose, può voler dire che il progetto sia destinato a durare o che sia destinato a rimanere un unicum di altissimo di livello. Quello che conta è che per tutte le 10 tracce si possa parlare di magia, che, per fortuna, non manca.

Antibalas – Fu Chronicles

Anche questa settimana ci imbattiamo in un disco che segue le tradizioni dell’afrobeat moderno. Gli Antibalas ci presentano sei lunghe, potenti, energetiche melodie con un groove davvero irresistibile. Una band tutta americana con ovvio ascendente africano che dimostra di essere in perfetta forma e ricca di idee e creatività. Se all’interno di Fu Chronicles trovate Fela Kuti non preoccupatevi, è tutto assolutamente voluto, l’anima dell’Africa nera diventa funk ed esplode in un arcobaleno musicale che parte dalle strade di Brooklyn e arriva sino all’altra parte del mondo. La traccia iniziale. Amenawon, contiene linee di tromba luminose, armoniche di backup e percussioni eccellenti per il suo tempo di esecuzione di otto minuti.
MTTT Pt. 1 ha un sound funky che predomina dall’inizio alla fine, con gli ottoni che danno forza ad un reparto ritmico già di per sé sostenuto e caloroso. Ma è forse nel pezzo finale, Fist Of Flowers, che l’intenzione ritmica della band sublima in una traccia tecnicamente ineccepibile, corale e vagamente psichedelica che chiude un disco sulla cui composizione si ha veramente poco da aggiungere. Una bella riscoperta che arriva dopo oltre 20 anni di carriera e 6 album che hanno visto una costante crescita verso l’obiettivo di far diventare globale un ritmo tipicamente “nero”. FEla Kuti sarebbe molto fiero di loro.

Patti Smith – Horses

Nel 1975 uscì l’album di debutto di Patti Smith, sono passati ben 45 anni, e riascoltarlo oggi ci mette di fronte ad una distanza ovvia, ma anche ad una consapevolezza di essere di fronti ad uno dei dischi più importanti della storia del rock, soprattutto per la scena underground e punk che si sviluppò di lì a poco nell’east Side degli Stati Uniti.
Con questo esordio, Patti Smith si propone come una figura nuova all’interno della storia musicale moderna, ritroviamo in lei la grande forma teatrale di un Jim Morrison ormai morto e sepolto ma anche la freschezza di una poetessa che non ha paura di misurarsi con il successo, reinterpretare un brano dei Them e scegliere John Cale come produttore, che quasi contemporaneamente fece uscire il suo ottimo Vintage Violence dopo l’epopea vissuta coi Velvet Underground. Insomma, Horses è un disco nato sotto i migliori auspici, è energico, quasi punk, con episodi reggae (Redondo Beach), tempi molto sostenuti e incalzanti (Free Money), poesie canzoni come Land e una finezza conclusiva come Elegie che chiude un cerchio magico in cui la sensibilità di un’artista come Patti Smith riesce ad emergere pur essendo la sua prima esperienza discografica. Per chi volesse ascoltare, da audiofilo, la bellezza e l’immediatezza di Horses, potrà trovare in rete un remaster ad altissima definizione di Horses. Sembra quasi di sentire i sussurri di Patti Smith avvicinarsi piano piano alle nostre orecchie, una gioia e una delizia, ma anche una grande responsabilità nel saperli accogliere.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.